ELOGIO DI DAVIDE MARCHINI, CAPITANO SCOMODO MA VERO: UN VALORE AGGIUNTO DA CUI SI DEVE RIPARTIRE

Tra le tante cose che accadranno se, come sembra, l’agonico interregno benasciuttiano proseguirà, ci sarà anche la certezza di non vedere più in maglia biancoazzurra uno dei maggiori talenti che il vivaio spallino degli anni Novanta abbia saputo creare: il capitano Davide Marchini. Poco male, si dirà. Con tutto quello che è successo e può succedere alla Spal, non avere più in squadra un giocatore a fine carriera, che ha già dato tanto in altre piazze e che ora non sembra avere più molti stimoli, è un problema minore. Poi su, il ragazzo di Ostellato troppe volte perde la testa, protesta tanto, sempre e inutilmente, litiga con arbitro e avversari, non lascia mai tranquilli i compagni.
Eppure, Marchini “Il Vecio”, o per meglio dire “Il Leone”, come lo chiamiamo in molti, ha messo in mostra i suoi colpi anche quest’anno, dimostrando, se mai ce ne fosse stato bisogno, non solo e non tanto di essere uno che la D la può fare anche in pantofole, ma di aver scelto la Spal per esclusivo senso di appartenenza. Poteva starsene in categorie superiori, firmare con una società capace di garantirgli lo stipendio, farsi un paio d’anni buoni e poi godersi la pensione. Invece no, ha scelto di restare a Ferrara, passando dalla Prima Divisione ai dilettanti, per provare a riportare la Spal dove merita. E ancora ci resterebbe, a Ferrara, se solo la società fosse guidata da persone che, proprio come lui, la Spal non ce l’hanno tatuata solo nel braccio, ma soprattutto nel cuore.
Ruolo paradossalmente scomodo il suo e mai fino in fondo capito: ci ha provato a tutelare quella Spal che i suoi rappresentanti non provano vergogna a chiamare “patrimonio della città” salvo poi subire passivamente le scelte altrui, nominando presidenti senza l’ufficialità, dando credito a tutti quelli che passano, con l’unico obiettivo di avere meno grane possibile legate al calcio. Davide Marchini è l’altra faccia del calcio, quella in cui una stretta di mano e una chiacchierata a quattrocchi contano ancora qualcosa, anzi, più di ogni altra cosa.
Ma, se Marchini partirà, non perderemo solo un valore sportivo. Non si perderà solo il giocatore, solo il capitano. Con Marchini se ne andrà da Ferrara un’idea di calcio che forse non esiste più da nessuna parte. Con Marchini se ne andrà una bandiera che ha la Spal nel cuore (per davvero), tanto da volersela imprimere per sempre sulla pelle, con quell’ovetto sacro tatuato sul braccio destro a sottolineare l’identificazione con una storia speciale, con dei colori speciali. Se ne andrà un ragazzo generoso in campo e fuori, capace di ospitare a casa sua (tanti) compagni di squadra che non avevano i soldi per pagarsi l’affitto, capace di comprare le maglie da gioco alla sua squadra quando ne era incredibilmente sprovvista. Un ragazzo che ha visto la propria carriera minata da quel suo carattere così irriducibilmente ostile agli abusi di potere, alla falsità, al tradimento della fiducia e, soprattutto, condannato a vita dal rifiuto categorico di tutto ciò che di disonesto ruota attorno al mondo del calcio.
Erano i tempi di Cagliari, serie A. Marchini, a 26 anni, era al massimo della forma, il suo cartellino valeva 2 milioni e 500 mila euro. Il 29 ottobre del 2007, in un bar di via Grazia Deledda, a Cagliari, Marchini viene fatto picchiare da un tifoso personale di un suo compagno di squadra, quel Pasquale Foggia che oggi gioca nella dorata Dubai, ma la cui carriera, dopo quel giorno, non smise di prendere il volo, prima alla Lazio poi alla Sampdoria, poi di nuova alla Lazio, con tanto di debutto nella Nazionale di Donadoni, proprio a cavallo di quei giorni. Marchini non tace, denuncia l’accaduto, il caso esplode sui media: la Gazzetta dello Sport pubblica un memoriale del suo avvocato, anche “Le Iene” ne parlano. Foggia nega la versione di Marchini, Robert Acquafresca, anche lui nel bar, dice di non avere visto né sentito nulla. Nel gennaio di quest’anno Marco Marzano, l’aggressore, è stato condannato dal giudice di pace di Cagliari. Oggi, dunque, sappiamo che aveva ragione Marchini. Eppure, in seguito a quell’episodio, ‘Il Vecio’ vede la sua carriera bruscamente frenata, nonostante società e allenatore avessero inizialmente espresso la loro solidarietà nei suoi confronti. Marchini viene messo fuori rosa ed è costretto a salutare Cagliari al termine della stagione, nell’anno in cui con una doppietta personale aveva steso la Roma di Spalletti, la Roma di Panucci e Mexes, Aquilani e De Rossi, Vucinic e Totti. Va al Bologna, poi al Livorno. Ma il treno della serie A era già passato per sempre.
Marchini è stato emarginato da un mondo di cui ha deciso di non accettare le fondamenta di falsità e di ipocrisia, di opportunismo e di viltà, di omertà e di ingiustizia, di raccomandazioni e adulazione. Questo, non perché sia un santo, un paladino del bene o per chissà quale altro motivo. Marchini ha semplicemente scelto di rifiutare i compromessi, ha rifiutato la “prostituzione intellettuale”, per citare un allenatore che ama, di tanti suoi colleghi, ha deciso di non abbassare la testa. E’ una scelta, niente di più, niente di meno. Ha scelto di stare dalla parte di quello che riteneva giusto, non dalla parte di quello che gli conveniva. Per questo ha pagato e ha avuto una carriera al di sotto di quello che meritava. Ma non è lui che deve avere rimpianti. Lui ha realizzato il suo sogno di bambino, ha giocato in serie A, contro Ronaldo e Beckham, contro Ibrahimovic e Balotelli, contro Viera e Stankovic, contro Del Piero e Trezeguet. Siamo noi che dobbiamo avere rimpianti, perché ancora una volta, di fronte a quella stessa scelta, non riusciamo a liberarci di un calcio malato, e lasciamo andare chi l’ha combattuto.
Non è stato zitto Marchini. Né ai tempi di Cagliari né oggi. E anche quest’anno, quando avrebbe forse fatto meglio a non crearsi dei nemici, per stare nella sua amata Ferrara fino al giorno in cui avrebbe attaccato le scarpette al chiodo, si è invece preso la responsabilità di denunciare davanti ai microfoni le mancanze della società guidata da Benasciutti, sfondando il muro di silenzio e reticenza che è ancora lo stile di questa proprietà, anche in questi giorni in cui si chiederebbe la massima trasparenza, la massima onestà per evitare un altro anno di umiliazioni. Il Vecio parte, dunque, e con lui le nostre speranze di vedere presto un po’ di luce alla fine di questo lunghissimo tunnel.

Servizio a cura di Michele Ronchi Stefanati

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