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Amici de LoSpallino, è con grande piacere che oggi incontriamo Gianfranco Bozzao, l’indimenticato difensore della SPAL che sul terreno del Mazza, tra il 1958 e il 1968 (con la sola parentesi juventina del campionato ’61-’62) si meritò l’appellativo de “il Tigre”. Ai più giovani, che conoscono i fasti di un tempo solo dai racconti dei nonni, diciamo che Bozzao è una delle più gloriose bandiere biancazzurre. Di estrema correttezza con gli avversari, l’unica espulsione della carriera la rimediò per un errore di attribuzione dell’arbitro, che gli fece scontare un fallo commesso da Oscar Massei. “Fu una fortuna, quella volta, – dice – perché io soffrivo di uno strappo muscolare che mi avrebbe comunque fatto saltare la partita successiva, mentre uno come Massei era fondamentale per il nostro gioco. Ricordo anche che sulla stampa nazionale qualcuno disse che Mazza ci aveva istruito bene, perché mi attribuirono la furbizia di essermi preso la colpa di Massei per evitargli la squalifica”. Fuori dal campo, Bozzao è stato un esempio per i più giovani, anche se la sua caparbietà di carattere a volte gli creava qualche problema con Mazza stesso. Erano comunque episodi che si risolvevano in modo indolore, altrimenti non si spiegherebbero le 197 partite in serie A giocate in nove anni di militanza biancazzurra. Vanta un solo gol all’attivo (nella stagione 67/68, a S. Siro contro il Milan) perché Mazza gli proibiva tassativamente di varcare la metà campo. Ha lasciato un grande ricordo di sé, Gianfranco Bozzao, e, per questo, noi che abbiamo avuto la fortuna di vederlo giocare, siamo onorati di incontrarlo e di scambiare quattro chiacchiere con lui.
Al momento del nostro incontro è reduce dalla visione dell’allenamento della SPAL, riguardo al quale dice che ha visto luci, e ombre e un paio di svarioni nel controllo di palla che, ai suoi tempi, ti mandavano fuori squadra.

Ti ricordi come nacque il soprannome “il Tigre”?
“Chi me lo abbia affibbiato non lo ricordo, ma derivava dalla grinta che ci mettevo in campo, quella sana aggressività con cui affrontavo gli attaccanti avversari. Credo che l’aggressività, anche se accompagnata da correttezza agonistica, sia una qualità indispensabile per un difensore, e io cercavo di dimostrarla sempre, anche per far capire agli avversari che con me non avevano la vita facile. Per questo ero conosciuto come “il Tigre”.

Esordisti in serie A alla settima giornata del campionato 58/59, a Marassi contro la Sampdoria: che ricordo hai di quella prima volta, che sensazioni ricordi?
“Non ricordo molto di quella giornata, forse perché ero stato due anni nelle giovanili della Fiorentina, poi ero stato a Salerno. Per questo, avevo già una certa esperienza e non avevo particolari ansie o timori a giocare a grandi livelli. Avevo già ventidue anni e io quella partita la sentii un po’ come le altre. Giocando con le giovanili, avevo già incontrato molti dei campioni più in vista della massima serie. Ricordo, in particolare, i duelli che avevo già sostenuto con Bruno Mora, una grande ala destra della Sampdoria che poi avrei trovato come compagno di squadra nella Juventus, nel campionato ’61-’62. No, direi che la prima di serie A non mi ha lasciato particolari sensazioni e non mi sembra di essere stato molto emozionato”.

Il bel libro di Fontanelli e Negri, Il calcio a Ferrara, a pag. 173 riporta: “[nel campionato 1958-1959] Fra i biancaazzurri un raggio di luce giunge da due giovani di belle speranze come Saul Malatrasi e Gianfranco Bozzao”. Secondo te, quanto contò l’apporto di voi due giovani al raggiungimento di una salvezza anticipata?
“Nel ’58-’59, quando sono arrivato io, la SPAL era composta da giocatori già in là con l’età. C’erano Broccini, Villa, Lucchi, Dal Pos, tutta gente di una certa autorevolezza a cui noi giovani guardavamo con un certo rispetto. Rispettavamo i loro suggerimenti, perché avevano più esperienza di noi. A quei tempi non era come oggi: si ascoltava davvero i più anziani, per cui il nostro apporto consisteva soprattutto nella disciplina che dimostravamo, in campo e fuori, nell’attenerci alle indicazioni di chi era più esperto di noi. Credo che la forza di noi giovani stesse nella nostra umiltà, quella di cui oggi forse si sente un po’ la mancanza. Eravamo anche più educati. Io credo che il rinnovamento del calcio oggi passi soprattutto dall’educazione, perché se un giovane non è educato, e umile, non segue i consigli. Balotelli ne è un esempio classico: è uno che non rispetta il gruppo, va per la sua strada e risulta dannoso in una squadra, anche se avrebbe delle indubbie qualità tecniche. Pensavo che il Milan sarebbe riuscito a raddrizzarlo, anche con l’apporto dei più anziani e maturi, come succedeva ai miei tempi. Invece si vede che è un tipo troppo ostico da affrontare, e così hanno preferito disfarsene”.

Che ricordo hai  di quel gruppo, nel tuo primo anno alla SPAL? C’era qualcuno che, come si suol dire, sapeva fare spogliatoio?
“Beh, un nome su tutti: Broccini. Una persona matura, padre di famiglia, seria e disponibile. Si dedicava molto ai giovani: li invitava a pranzo a casa sua, parlava loro con pazienza e risultava per noi un vero e proprio esempio da seguire. Tra lui e noi c’era una comunicazione, franca e leale, che ti dava sicurezza. A questo proposito, non posso fare a meno di pensare ai giorni attuali: tu mi vuoi dire come fai a cumunicare oggi con gente che gira per strada senza vedere niente? Oggi i giovani hanno gli occhi solo per il telefonino. Camminano e intanto smanettano sul telefonino. Non ascoltano, non ascoltano niente! E’ questione di educazione, caro mio. Sembra incredibile, ma è da qui che bisogna partire per formare degli atleti validi: dall’educazione. Prima devono essere uomini, cavolo, poi calciatori! E il mondo del calcio deve attrezzarsi anche per saper svolgere una funzione educativa, altrimenti non si va da nessuna parte”.

Figurina BozzaoAllora: campionato 58/59 salvezza al 16° posto; 59/60 quinto posto, miglior piazzamento nella storia della SPAL. Quale fu, secondo te, il valore aggiunto che permise un così notevole salto di qualità? Fu determinante il cambio di Broccini con Massei o ci furono anche altri innesti che fecero la differenza?
“Il valore aggiunto è stato senz’altro lo svecchiamento. Hanno abbassato l’età media, puntando molto su alcuni giovani. Hanno cercato giocatori poco noti che, oltretutto, hanno anche abbassato i costi di gestione. Picchi e Balleri, ad esempio, erano ancora semisconosciuti, giovani ma non giovanissimi, gente esperta, temprata da anni di serie C: non costavano molto e ubbidivano al criterio ‘mazziano’ della formazione di una squadra, che peraltro io condivido. Secondo Mazza, una squadra andava costruita su un’intelaiatura, composta da uomini d’esperienza, che supportasse un certo numero di giovani. Quell’anno lì l’operazione gli riuscì particolarmente bene, perché seppe creare un amalmaga tra vecchi e giovani che diede ottimi frutti. E poi Mazza sapeva scegliere gli uomini giusti. Aveva organizzato una rete di osservatori, di uomini esperti che andavano ogni domenica sui vari campi e segnalavano gli elementi più interessanti. Lui aveva due obiettivi da centrare: uno era fare una squadra competitiva e l’altro trovare un paio di giovani da valorizzare, in modo da realizzare un bel po’ di quattrini alla fine del campionato. Oggi gli allenatori non fanno giocare i giovani, perché hanno paura di perdere la partita. Invece Mazza obbligava a far giocare i giovani, perché altrimenti non ci stava dentro coi costi. Non c’era tempo per le diatribe, come quella di questi giorni, tra Mattioli e Brevi. Adesso Brevi si ritiene in diritto, in quanto allenatore, di far giocare chi vuole lui, mentre il presidente vorrebbe poter usufruire degli incentivi federali sul numero di giovani utilizzati. E’ una trovata della Federazione, questa, che, secondo me, rischia di far utilizzare i giovani non perché sono bravi, ma perché ti danno utili. Con Mazza non c’era tempo per tutto questo, perché i giocatori li mandava in campo lui e l’allenatore stava ai suoi ordini. Se adesso non è più così, Mattioli deve rispettare i diritti dell’allenatore. Una volta, però, gli allenatori rischiavano di più: quando in un giocatore intravvedevano grosse potenzialità, non avevano paura a mandarlo in campo a diciassette-diciotto anni. Oggi, invece, a diciotto non giochi neanche tra i dilettanti. A questo proposito, ho notato che l’attenzione ai giovani è scarsa anche nelle dichiarazioni d’intenti del nuovo residente federale. Tavecchio dice che sistemerà il calcio, ma riguardo ai vivai che producano nuovi campioni non dice niente. E’ dal basso che bisogna cominciare a riformare il calcio, non dai grandi club. Se questo non lo capisce neanche il presidente federale, siamo a posto…. E poi, l’educazione: ci ritorno sopra perché per me è fondamentale. I giovani devono capire che ci sono delle regole da rispettare e chi non lo capisce deve essere allontanato. Che vada a fare dell’altro, il calcio non è per lui”.

In base alla tua esperienza di giocatore prima, e di allenatore poi, quando non si dispone di grosse risorse, come si può allestire una squadra che possa competere a viso aperto con le grandi?
“Sì, in parte abbiamo già detto. Il metodo di Mazza è la ricetta giusta. Nella SPAL dovevano militare persone che potevano accontentarsi dal punto di vista economico, sane dal punto di vista fisico e mentale e valide tecnicamente. Per trovare in giro di questa ‘mercanzia’, era circondato da persone competenti e capaci di scorgere quelle qualità che ho detto”.

Quanto era importante, ai tempi di Mazza, il centro di via Copparo?
“Via Copparo è il capolavoro di Mazza. Lì si sono formati tanti giovani, alcuni dei quali sono diventati dei campioni. Purtroppo, però, in seguito lo si è dovuto vendere al Comune. E’ stato al tempo dell’estromissione di Mazza: essendoci dei debiti in bilancio, si è dovuto rientrare vendendo il Centro”.

Mi disse Bagnoli un giorno che, quando dovette allestire il Verona che nell 1985 avrebbe vinto lo scudetto, l’unica pretesa sulla quale puntò i piedi con la dirigenza fu Volpati. E questo perché Volpati per lui “faceva spogliatoio”. Proprio così disse. Cosa vuol dire esattamente “fare spogliatoio”? Ed esistono ancora, secondo te, “uomini-spogliatoio”?
“Per fare spogliatoio bisogna essere leader. Per essere leader è necessario essere culturalmente e caratterialmente dotati. Bisogna avere l’autorevolezza necessaria per risultare persuasivo e convincente, al punto che tutte le incomprensioni si superano facilmente. Mi ricordo Massei: aveva un carisma, una capacità di farti capire le cose, che bastavano due parole sue per cambiare l’andamento di una partita. Io ho sempre pensato che Oscar vivrà cent’anni, perché i suoi ritmi erano lenti, mai concitati o nervosi. Con quel suo accento argentino, sapeva sempre sdrammatizzare: ‘No te preocupe’, diceva dandoti una pacca sulla spalla. E noi ci rimettevamo ai suoi consigli con entusiasmo. Penso che anche adesso ci siano i leader, ma forse sentono meno la responsabilità di comunicare  con chiarezza il loro pensiero. Adesso è tutto un telefonare e chattare che impediscono la comunicazione diretta, guardandosi negli occhi e facendo diventare significativi anche i silenzi”.

Brevi quest’anno ha chiesto una squadra che risponda ad un suo progetto di calcio, una squadra quasi a sua immagine e somiglianza. Secondo te fa bene la società a cercare di accontentarlo? Non ti chiedo come faceva Mazza perché, se la formazione della domenica la voleva fare lui, mi chiedo quanto contasse l’allenatore durante la campagna acquisti…
“Certo che fa bene la Società. Se ha ingaggiato quell’allenatore, ne conosce la professionalità e la preparazione, per cui deve stare a quello che dice. Nel momento in cui dici di no alle sue richieste, vuol dire che non credi in lui. Allora cosa lo hai preso a fare? In più, c’è da dire che Brevi ha portato con sé alcuni giocatori in cui crede; per cui, se lo mandi via, potrebbe crearsi tra i giocatori un clima tutt’altro che favorevole al raggiungimento degli obbiettivi prefissati. Mazza invece faceva tutto lui e non doveva preoccuparsi di niente”.

A proposito, hai seguito un po’ l’affare Miglietta? Che idea ti sei fatto del comportamento del giocatore e di quello della società?
“In questa faccenda i poli della contesa sono tre: le due società (Novara e SPAL) e il giocatore. Io difendo sempre il giocatore. In questo caso, in particolare, secondo me ci sono stati degli errori in sede di definizione del contratto: perché la procedura che si segue quando un giocatore non rispetta i termini del contratto prevede l’invio del contratto stesso in Federazione, la quale poi stabilisce una penale non di poco conto per il giocatore. Se questo non è stato fatto, vuol dire che il contratto non vincolava abbastanza il giocatore. Pertanto sarebbe stata buona cosa che, di fronte alla volontà del giocatore di andarsene, non si fosse montato un caso e si fosse lasciato andare senza problemi”.

Bozzao2Hai avuto modo di vedere qualcosa delle prime due partite? Che idea ti sei fatto dell’esordio così indecoroso dei biancazzurri?
“Non ho visto molto delle prime due partite ma, da quanto ho letto e sentito, mi sono fatto l’idea che questo allenatore sia un po’ un difensivista. E se sei difensivista e prendi tre gol a partita, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Penso che dovrà lavorare molto in questo settore. Comunque adesso non vale la pena fasciarsi la testa come se la rovina della SPAL fosse già scritta. Cerchiamo di stare calmi e aspettiamo di vederci un po’ più chiaro. Non serve a niente cominciare a distribuire colpe di qua e di là. Pensiamo alla prossima partita e abbiamo fiducia”.

Secondo te, la SPAL può ritornare ad essere quel vivaio di giovani talenti che fu al tempo di Mazza? E la dirigenza attuale si sta muovendo in questo senso con sufficiente determinazione?
“Secondo me è difficile. Mi pare che la dirigenza attuale brancoli un po’ nel buio. Ogni tanto si inventano qualcosa: adesso è in voga l’accademy, perché vogliono copiare le academy del Milan, dell’Inter, dei grandi club insomma. Sono belle iniziative, ma non bastano, perché dentro ci devi mettere gente professionalmente preparata: istruttori, preparatori e veri e propri educatori. Ci vogliono strutture e attrezzature adeguate che adesso non abbiamo più. E’ triste pensare che siamo stati i primi ad attrezzarci in questo senso e adesso non disponiamo più di niente”.

Qual è oggi il sistema migliore per scoprire ed allevare i giovani talenti?
“Come si diceva prima, ci vogliono osservatori preparati e competenti. Ci vuole una cultura per selezionare i giovani, e bisogna saperli esaminare sia dal punto di vista caratteriale che morfologico e strutturale. Naturalmente, per fare questo ci vogliono risorse che spesso una società di provincia non possiede. Ciò che invece non ci vuole più è la tendenza ai favoritismi, a far passare uno perché è figlio del Tale o Tal altro. Sono le doti e il merito che devono far emergere il vero campione, non le strizzate d’occhio di questo o quel genitore. Poi basta con gli allenatori che vogliono fare i Mourino con i bambini di sei-sette anni! Non puoi pensare a tattiche e schemi con bambini che chiedono solo di divertirsi. Vincere la partita, a quell’età, non deve essere la cosa più importante! E’ importante invece che imparino a muoversi: questo dovrebbe essere l’obbiettivo di un buon allenatore dei cosiddetti pulcini”.

Oggi il calciatore affermato, il campione, spesso dà di sé un’immagine da bambino viziato e superficiale che si traduce in comportamenti sprezzanti e divistici. Non credi che gli allenatori dovrebbero guardare anche a questi aspetti nel considerare più o meno affidabili in campo certi soggetti? Tanto per fare un nome: Balotelli ai mondiali che ci è andato a fare?
“L’allenatore di una squadra professionistica, secondo me, è l’ultima pedina di una serie di figure educative che il ragazzo, crescendo, avrebbe dovuto incontrare. Quando un ragazzo fa sport a livello professionistico, l’educazione dovrebbe essere per lui un patrimonio ormai acquisito e assimilato. E’ per questo che dico che l’educazione è importante, perché un allenatore non riesce a rendere utile per la collettività un maleducato. Perché non ascolta, si crede di sapere già tutto e si isola dal gruppo. L’allenatore, con questi soggetti, si trova in difficoltà, perché sono pur sempre capitale della società ed è difficile lasciarli fuori squadra tanto a cuor leggero. Si rischia di perdere il posto. Senza contare poi i malumori della tifoseria, di quegli ultras che sbraitano e inveiscono, pretendendo subito la resa dei conti o con l’allenatore o con la società. Mazza non li poteva sopportare gli ultras e spesso diceva di lasciarli fuori, perché non sopportava i loro atteggiamenti ricattatori e violenti. Vedi bene, dunque, che l’allenatore non è libero e serano nel fare le sue scelte e, a volte, il carattere difficile di un giocatore per lui è l’ultimo dei problemi”.

A questo punto, caro Gianfranco, non posso che ringraziarti della cortesia che ci hai riservato. Spero che avremo modo di intrattenci di nuovo a parlare della SPAL e di calcio in generale. E’ sempre un piacere ascoltarti. Ma per concludere, cosa ti senti di dire ai tifosi spallini per incutere loro un po’ di ottimismo per il futuro?
“Direi che adesso siamo agli inizi. C’è molto tempo per rimettere in sesto le cose e migliorare il rendimento. Non credo che la SPAL sia inferiore a molte delle sue avversarie. Adesso parlare non serve a niente, bisogna correre, pedalare come si diceva ai miei tempi. Oggi il calcio è corsa, velocità, non ci si può fermare. Un pallone perso va recuperato il più velocemente possibile e tutti si devono impegnare a questo scopo. E quando il pallone è recuperato, bisogna ripartire subito e servirlo in area, come ha fatto Bonucci per Immobile nella recente amichevole dell’Italia contro l’Olanda. Io credo che Brevi saprà lavorare in questo senso e il campionato della SPAL sarà più che dignitoso. Anche perché non mi sembra di vedere degli impresentabili nella rosa della SPAL: mi sembrano tutti ragazzi coi quali si può lavorare e fare qualcosa di buono.



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