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Profumo di salsiccia, aroma di luppolo e cipolla. Questo accoglie “gli atleti”, al Centro di Addestramento della SPAL, per la seconda delle tre giornate della festa dei tifosi. Un applauso grande come tutta la Ovest agli organizzatori, società e 8 Settembre, che hanno realizzato una kermesse biancazzurra, dove brilla l’obiettivo primario dell’aggregazione, del senso di appartenenza, senza dimenticarsi di nessuno, dai bambini agli anziani e ai mezzani. Noi appunto.

Io vorrei raccontarvi le immagini e le sensazioni degli atleti con la pancetta e la birra in mano, ma dotati di un senso tattico e di un gioco da fermo senza eguali. Tutti siamo giocatori, attenzione, uso il presente in maniera voluta. Chi ha indossato le scarpe bullonate allacciate sotto la suola o addirittura alla caviglia, chi si è arrotolato calzettoni, fissato i parastinchi con il nastro adesivo, ha annusato il ciprigno odore di muffa e canfora di uno spogliatoio è un giocatore. Indipendentemente dalla categoria, dagli anni di militanza, dai campi che ha solcato, dalle qualità e dal ruolo. Non credano i puristi, atleticamente perfetti, dall’addome disegnato, con i tatuaggi alla moda, il capello al vento e trent’anni da compiere fra cinque anni, di essere i veri calciatori. Lo siamo anche noi, un po’ più statici, artritici, appesantiti e luppolosi (ndr: parola inesistente da proporre all’Accademia della Crusca). L’euforia, il clima di festa, di fratellanza è palpabile, i campi sono un biliardo. A ogni passo abbraccio amici di stadio, ex compagni di squadra, avversari con cui ho incrociato i tacchetti nei lontani anni Ottanta, tutti accomunati dalla passione per la Beneamata e per il calcio. Quello vero, quello estinto… “no al calcio moderno, no alla pay tv…”.

A proposito, ma quand’è stata l’ultima volta che ho giocato al Centro ? Mumble, mumble… sì, credo che sia stato sul finire degli anni Settanta, quando alle elementari militavo nella S.A.C. (Scuola Addestramento al Calcio) di Bozzao e Novelli, beh, non è poi tanto se lo rapportiamo all’ultima glaciazione. L’approccio ai campi da gioco è consueto, non importa se sono passati dieci anni dall’ultima volta, ogni azione, gesto, ogni passo è talmente naturale da confondere anche i tecnici più esperti. Sembrerebbe che nessuna di noi abbia mai smesso di giocare. Ci si cambia all’aria aperta, (mutande escluse), le mie bimbe, i nostri bimbi ci guardano, probabilmente vedendoci molto più giovani di quello che siamo, ci danno consigli, ci chiedono mirabolanti imprese e goal in rovesciata. Ma noi, facciamo fatica ad allacciarci gli scarpini, a causa della nostra ipertrofica tartaruga, rovesciata.
Il numero. Attenzione! Io gioco solo col 6 o al massimo col 5, in caso contrario rescindo il contratto. Sì, fortunatamente trovo il numero 5, che mi ha accompagnato sulle maglie dell’Etrusca e del Porta Mare, il mio 6 è sulla schiena di un mio compagno che cercava il 5, fa niente, l’importante era non avere numeri da funambolo che non mi competono. Quali erano le mie principali caratteristiche da giocatore? Presto detto, difensore nudo e crudo, sognavo Albiero ma assomigliavo molto di più a Franco Fabbri, discreto senso della posizione e dell’anticipo, raffinatezza come una sassata nel fango, buon anticipo, gran cuore e piedi a vanga, rude ma corretto, poco propenso a porgere l’altra guancia. Questo ero, anzi sono.

La vestizione è paragonabile a quella dei campioni di un torneo cavalleresco. Il Cavaliere Inesistente direbbe Calvino. Ognuno di noi giocatori, diversamente giovani, ha le sue regole e i suoi riti, io ad esempio inizio sempre dai pantaloncini. Poi, a seguire la parte più difficile, la protezione delle caviglie, (che furono entrambe bombardate da un milione di distorsioni di vario grado). Le fasce elastiche (antiche come Mosè) sopra i calzettoni, fissate con nastro per racchette da tennis, per blindare le estremità. Le scarpe, ben strette quasi a fermare la circolazione del sangue e in ultimo, come la corazza di un paladino medioevale, la maglia, il tuo numero, la tua storia, l’odore a metà tra il detersivo da discount e il “cagnazzo” bagnato, così rassicurante e familiare. Quindi i primi allungamenti (se così si possono chiamare), senza tirare troppo onde evitare, il rischio di uno strappo. Ma eccolo lì, l’oggetto dei nostri desideri, si materializza quasi inaspettato, con la solita grazia, ruzzola e rimbalza come quando eravamo bambini, dal Tango al Mitre, fascino immarcescibile, è lui il pallone di cuoio. Misura piccola a rimbalzo controllato per il calcetto. Ci avventiamo su di lui come non avessimo mai smesso di giocarci insieme.

Timidi, i primi passaggi in cerchio a mo’ di torello, senza nessuno al centro, piattone leggero, stop scolastici, e poi eccolo, il villano che prova la botta al volo di collo pieno. Nessun trauma, già il fiatone, visione sfumata dei contorni, sotto il sole. Buon segno, siamo solo al riscaldamento. Al contrario di vent’anni prima, nessuno vuole essere nel quintetto base, spazio ai figli, per i padri c’è tempo. Poi, però si gioca, tutto uguale, tutto diverso, il campo sembra in salita, il vento sembra contro, tutto sembra contro, tranne gli avversari, che poi sono amici, la visione di gioco è la stessa, lo scatto, l’allungo e la corsa sono ininfluenti nel giudizio della singola prestazione.
Sontuosi da fermi, il calcio quasi uguale a una volta, la palla però va sempre data sui piedi, qualche metro più in la potrebbe essere fatale. Il risultato? Non conta. Parafrasando un amico argentino, le partite, non si perdono mai.



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