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L’avevano detto e l’hanno fatto. La SPAL rimane in serie A dopo averla faticosamente ritrovata dopo mezzo secolo e lo fa soffrendo, come aveva messo in preventivo di fare, fregiandosi del titolo di unica neopromossa in grado di salvare le penne nel campionato 2017-2018. Festeggiano legittimamente quelli che l’avevano detto: Colombarini padre e figlio, Mattioli, Vagnati, Semplici e i giocatori. Non sapremo mai se la loro fiducia apparentemente incrollabile, professata fin dal ritiro estivo, sia mai stata intaccata davvero dal germe del dubbio. Fatto sta che in un’epoca in cui in campagna elettorale si promette e poi si mantiene solo a volte, loro hanno centrato il risultato che desideravano, inebriando ancora una volta una città che troppo spesso finisce con l’incartarsi da sola nei suoi ingiustificati complessi di inferiorità.

La festa iniziata subito dopo il fischio finale di SPAL-Sampdoria probabilmente non avrà l’intensità e la durata di quella di un anno prima, ma porta con sé lo stesso senso di liberazione che viaggia di pari passo all’ovvia soddisfazione per un anno di sforzi ripagati. Un sollievo di nove mesi di campo logoranti, che neanche è il caso di star lì a fare il paragone con una gravidanza per quanto sarebbe scontato. Eppure può essere davvero considerato un giorno in cui è nata una nuova SPAL: la permanenza in serie A chiude necessariamente il primo quinquennio trionfale dei Colombarini con la dimostrazione che sì, si può partire dalla solo apparente irrilevanza geopolitica di Masi San Giacomo e della C2 e arrivare in cima alla montagna nello spazio di un lustro. Lunedì negli uffici di Vetroresina e della SPAL sarà un giorno di lavoro, garantito: ci sarà da far partire il cantiere dello stadio e ci sarà da consolidare un progetto tecnico che potrà tenere conto dell’anno di esperienza accumulato, anche a costo di errori che a fronte del risultato verranno senz’altro perdonati da chi vive per questi colori. Rimanere in serie A è un affare per la SPAL, ma anche per Ferrara, perché è vero che dai diamanti non nasce niente, ma un po’ di grano in più ti permette anche di seminare con più serenità.

L’idea in fondo è stata questa fin dall’inizio: sopravvivere a quello che ci è stato fatto credere sarebbe stato un ballo delle debuttanti e invece è stata una feroce lotta tra epigone di cenerentola per l’accreditamento nell’alta società. In un campionato in cui le super ricche usano le altre, nella migliore delle ipotesi, come parcheggi per i loro giocatori sotto-utilizzati, la SPAL si è accorta che i luccichii della serie A implicano anche zone d’ombra più ampie di quanto si era abituati a conoscere, in cui è un attimo trovarsi senza punti di riferimento. In cui un sistema mediato vorace e spietato considera certe realtà niente di più che sfondi variopinti per le passerelle delle sette sorelle. Ora però la SPAL può presentarsi nei salotti con un aplomb diverso, perché ha dimostrato con tenacia, sul campo, di non essersi intrufolata ai piani alti con un biglietto della lotteria tra le mani. Può immaginare un futuro con tanti punti in comune col suo passato migliore: quello della provincia calcistica felice, dove si gioca, si soffre e si fa emozionare una città. Paolo Mazza, seduto su una panchina da qualche parte nell’universo, guarda e probabilmente applaude: il prossimo anno saranno diciotto, una vita intera in serie A.



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