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La giornata di domenica si può riassumere come la conclusione di una lunga e difficile dieta durata nove mesi. Una dieta che ha comportato sacrifici, sofferenze, sgarri e soprattutto dedizione, ma che alla fine ha dato i suoi frutti: il 20 maggio tutti i tifosi spallini hanno perso qualche chilo, assieme a qualche anno di vita che si mette inesorabilmente in conto quando si sceglie una maglia di cui innamorarsi.

C’è una categoria di persone che per tutto l’anno si è maledetta di non aver fatto l’abbonamento e io ne faccio parte. Così, come in ogni occasione nella quale non riesco a trovare l’agognato biglietto, vado a vedere la partita al Clandestino di via Ragno, punto di riferimento di moltissimi tifosi biancazzurri. Senza lasciare nulla al caso (si sa, ogni tifoso ha i suoi rituali scaramantici e io che sono nota per essere una ritardataria cronica quando c’è la SPAL mi attivo tre ore prima) arrivo al pub alle 15.10 quando è ancora vuoto. Scelgo accuratamente il tavolo (che poi è sempre lo stesso) e ordino la prima birra. Anche con poca gente si sente che l’aria è tesa e sta per succedere qualcosa. La gente arriva poco alla volta, fino alle 17.30 si vedono ancora tavoli liberi. Alla stessa ora al Paolo Mazza la curva già cantava. Inganno l’attesa con le solite chiacchiere da bar, controllo e ricontrollo le formazioni, la classifica, faccio calcoli (improbabili e tendenzialmente inutili) e finalmente arrivano le 18. Nel locale, ormai gremito al pari dello stadio, cala un religioso silenzio: nessuno ha il coraggio di aprire bocca, a rompere l’incantesimo ci pensa poi Antenucci che con il suo rigore gonfia la rete e tutti scoppiamo in un’esultanza che è quasi uno sfogo. Dopo quei brevi attimi di gioia, da buoni spallini ci ricomponiamo e torniamo nel nostro silenzio scaramantico. Niente cori, niente esuberanza. È ancora troppo presto per cantare vittoria, ci siamo passati la settimana scorsa con il Torino, meglio non abituarci all’idea. Poco dopo arriva il vantaggio del Napoli sul Crotone, ci abbracciamo tutti come se a segnare fosse stata la SPAL e i nostri cuori tornano a battere ad un ritmo (quasi) normale. Il tempo scorre lento, come sempre quando il risultato è positivo, un minuto sembra durarne cinque, ma finalmente il primo tempo si conclude.

Esco, faccio due passi fuori, respiro un po’ d’aria e come di consueto chiamo papà per commentare l’accaduto. L’intervallo sta per finire, riprendiamo posto, tutti nelle stesse posizioni iniziali, guai a chi si sposta, facciamo l’ultimo respiro a pieni polmoni e ci tuffiamo nella volata finale. A rompere l’agonia ci pensano Alberto Grassi e di nuovo il nostro capitano. Ci siamo. 3-0 noi, 2-0 il Napoli. Nessuno se la sente di dirlo, ma i nostri volti si sono rasserenati. Ancora una volta il tempo sembra essersi fermato, arriva anche il gol della Samp ad ingrigirci nuovamente, ma non riesce di certo ad abbattere i nostri animi, ne abbiamo passate di peggio. Il risultato si congela così, come anche tutti gli spettatori del locale e finalmente sentiamo il triplice fischio. L’esultanza è flebile, intimorita, incredula. Siamo tutti increduli, ce l’abbiamo fatta. Ci siamo salvati. Dobbiamo ripetercelo un po’ di volte per riuscire a renderci conto del significato di queste parole. Ci siamo salvati. E ce lo siamo meritati. Per cui su il braccio in direzione del bancone: “Un’altra birra per favore”. Mica vorremo continuare a perdere i nostri preziosi chili ora che la stagione è ufficialmente finita: ce n’è un’altra che inizia tra meno di tre mesi.



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