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La fredda cronaca dice che Giovan Battista Fabbri, per tutti Gibì, se ne è andato di notte, a ottantanove anni, in una casa di cura di Ferrara. Oltre la cronaca però c’è un’ondata di cordoglio e tristezza per un uomo straordinariamente dotato, tanto sul piano umano quanto sul piano professionale. Riepilogare la lunga lista di risultati e di premi conseguiti in sessant’anni di carriera quasi offenderebbe la sua memoria. Un tifoso della SPAL sa perfettamente chi era Gibì Fabbri e cosa ha fatto, chi non lo sapesse apra un libro di storia del calcio italiano o si affidi a Google e avrà le risposte. Si accorgerà in fretta di quanto abbia significato per Ferrara, i ferraresi e tanta altra gente sparsa per il Paese.

Giovanni Battista: il destino nel nome. Chi ha bazzicato il catechismo in giovanissima età, anche distrattamente (cioè chiunque), saprà che si tratta di un celebre santo. Se ci si aggiunge il cognome Fabbri, il risultato non darà un santo, ma un profeta. Profano quanto si vorrà, ma un profeta. Un profeta del gioco del pallone, fino a prova contraria uno tra i più innovativi e premiati. Uno che giocava all’olandese quando ancora gli olandesi dovevano iniziare a farlo nel modo poi esportato in tutto il mondo: “Con tutto il rispetto per Cruijff e compagni,– disse in un’intervista rilasciata nel 2011 a Daniela Modonesi –  io ho sempre giocato così, fin dai primi anni quando ho fatto l’allenatore-giocatore al Pavia e al Varese, fine anni Cinquanta. Dicevo: dobbiamo andare a cercare la porta avversaria, dobbiamo farlo più spesso possibile e con tutti gli uomini. Sa quante volte ho sgridato il portiere, quando faceva i rinvii a casaccio?”.

Spesso si sente dire che Gibì era un tipo alla vecchia maniera: schietto, dalla battuta sempre pronta, con un’atteggiamento un po’ così, pane e salame, fronzoli ridotti al minimo. Se si chiede un suo ricordo ai giocatori passati (“I miei ragazzi“) sotto i suoi occhi (e sono tanti), ne uscirà uno sempre diverso, spesso estremamente divertente. L’ironia e soprattutto l’auto-ironia non l’hanno mai lasciato, anche in età avanzata. Qualche anno fa, durante un torneo giovanile, un cronista de LoSpallino gli si avvicinò per fotografarlo. Lui sorrise e chiese il motivo della foto. Ricevuta la spiegazione, rispose: “Beh mo la gente è stufa di vedere me, guarda lì, c’è bomber Pivatelli: lui sì che è importante”. Umile e col sorriso. Quando Filippo Vendemmiati, in una serata organizzata dagli Spallinati nel 2010, gli chiese se avesse mai rimpianto di non essere passato ad allenare il Milan replicò con un: “Eh va ben, e se a Milano fossi finito sotto un tram?”.  No, è davvero difficile che la gente si sia mai stufata di lui, difficile che possa stufarsi di ricordarlo in futuro. Perché Gibì Fabbri era unico nel suo genere. Vedeva più avanti degli altri, sul campo e probabilmente anche fuori. Seppur discretamente e senza fanfare, si era anche già scelto il suo epitaffio: “Una vita di bel calcio“. E’ il nome dell’autobiografia edita nel 2011 da Bacchilega. Lo è stata davvero e per niente banale. “Nella mia vita – disse qualche anno fa – ho avuto due amori, totalmente diversi: mia moglie Irene e la SPAL“. Basterebbe anche solo questo, per farsi scendere una lacrima in un giorno così triste.



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