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Nella prima parte del nostro incontro il Capitano aveva appena affermato che la Spal quest’anno, sulla carta, non è inferiore a nessuno e che la sconfitta di Cagliari non fa testo.

Penso che le sue parole siano musica per le orecchie dei tifosi biancazzurri.
“Ma sì. La serie B, poi, vuol dire anche calpestare su campi migliori rispetto alle serie minori e trovarsi in ambienti più tranquilli. Mi ricordo un episodio, in un campo del meridione, di un giocatore che va a tirare un calcio d’angolo e si sente agganciare al collo da un ombrello di un tifoso”.

Lei ha allenato su parecchi campi, vero?
“Sono stato due anni a Messina, in C, tre anni a Galatina, ancora in C, e poi tante altre squadre del nord, tra C1 e C2”.

Per terminare – guarda un po’ – proprio alla Spal.
“Esatto, alla Spal, dove ho deciso di dedicarmi alle giovanili. Era la fine degli anni Ottanta e mi son detto che non avrei più allenato tra i professionisti, perché avevo perso l’entusiasmo. Mi venne anche da pensare di non possedere le capacità per allenare, perché il mio carattere non mi ha fatto applicare molto per migliorarmi. Io intendevo l’attività dell’allenatore come divertimento. A me piaceva giocare coi ragazzi: allenarsi durante la settimana, ma poi partecipare alle partitelle d’allenamento, come fossi uno di loro. Così ho preferito dedicarmi alle squadre minori. Poi nel 1994, a sessant’anni, quando ho cominciato a sentire fatica a correre, ho capito che non valeva più la pena affrontare le intemperie per limitarmi a predicare sul campo. Così ho smesso del tutto di allenare”.

Anche lei, dunque, come ad altri campioni con cui ho parlato, al calcio piaceva giocare più che stare in panchina in squadre che, magari, le avrebbero fatto guadagnare di più.
“Certo. Ma io ci tenevo a partecipare alle partitelle d’allenamento anche per far vedere ai ragazzi come ci si doveva muovere. Dovevano capire che per giocare bisognava essere semplici, a meno che non si sia interdittori forti e rapidi. Non ci si può limitare al fraseggio lento a centrocampo, ma bisogna passare la metà campo e non fermare mai la palla. Mi capita a volte di vedere certi giocatori, anche nelle nazionali, che fanno sempre le stesse cose e dimostrano di non avere la completa panoramica del campo”.

Lei pensa che uno dotato di una completa panoramica, ma non tanto veloce, potrebbe ancora funzionare nei ritmi di gioco odierni?
“A patto che abbia supporto. Però ai compagni non piace troppo che uno sia esentato dal compito di interdire. O si ha a che fare con un Pirlo o un Rivera, il quale era supportato da Lodetti, o nascono delle incomprensioni. L’ideale sarebbe che avesse delle grandi doti di interdizione e, allo stesso tempo, anche quella panoramica sul campo di cui ho detto”.

Certo che dai tempi suoi e di Rivera il calcio ha subito una trasformazione notevole.
“Da quando ha cominciato a sparire il libero…”.

Con Sacchi?
“Ancora prima di Sacchi. Negli anni Settanta era stato l’Ajax a rivoluzionare il calcio: dopo non fu più come prima. Anche se io ho cercato di resistere, perché ho sempre fatto giocare le mie squadre col libero. Mi sentivo più sicuro, perché, se punti solo sui quattro centrali, bisogna che almeno due siano intelligenti e veloci. Il Milan di Sacchi, ad esempio, schierava Baresi, Rijkard e Van Basten, i quali possedevano appunto quelle doti di intelligenza e velocità che rendevano superfluo il libero. Stessa cosa si potrebbe dire per il Barcellona di oggi: Mascherano, Suarez e Messi. Questi tre sono la ‘clave‘ dei Blaugrana. Se poi ci aggiungi Iniesta e Neymar, allora vien fuori lo squadrone che è”.

Lei vede all’orizzonte il profilarsi di altri talenti a livello mondiale?
“Purtroppo non ci sono più grandi giocatori emergenti nel mondo. Brasile e Argentina sono in forte crisi di giovani di talento con cui si possa fare uno squadrone. I grossi club che già hanno i campioni se li tengono ben stretti e così, anche se si hanno i soldi, non si fa niente”.

Ma com’è possibile che le scuole brasiliana e argentina siano così decadute?
“Perché i grossi club europei si portano via i ragazzi da piccoli e se li crescono loro. E la preparazione che ricevono qua è diversa da quella dei paesi d’origine. Qua lavorano molto di più”.

Allora si perdono le specificità brasiliane o argentine del calciatore sudamericano…
“Sì perché oggi li costruiscono in laboratorio, non si allevano più nel ‘potrero, como disemo nosotros‘, cioè nel campo dove stanno i cavalli, dove si corre in libertà, come i ragazzi nei prati”.

Anche Massei, dunque, come già Bozzao e Pasetti, non simpatizza molto con le scuole di calcio. Sin da piccoli ora si ha a che fare con schemi e moduli di gioco che rallentano lo sviluppo di quell’estro individuale di cui sono forniti i veri campioni. Per questo non ci sono più grandi giocatori nel mondo. Sarà forse un improvviso assalto di nostalgia che mi induce a estrarre dalla borsa il libro Ars et Labor (Spallinati, Carmelina Edizioni, 2009) e, come già feci con Osvaldo Bagnoli, ad aprirlo a pagina 48.

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Si ricorda di questa grande festa? Il volto del Capitano si riaccende della gioia di quei momenti indimenticabili, come se mezzo secolo valesse pochi minuti. Poi si fa serio, come al ricordo di un pericolo scampato.

“Fu una una promozione sofferta, però, quella. Meno male che Il Lecco, all’ultima partita, pareggiò in casa, perché noi perdemmo a Potenza 2-1, subendo un gol direttamente da calcio d’angolo. A metterci nei guai fu quel ‘petisso‘ [piccoletto] che ho ritrovato tempo fa ad Arona, dove gestisce un ristorante. Come si chiamava? Un paio d’anni dopo fece anche una stagione con noi… Carrera si chiamava, Franco Carrera. Che tiro inventò! Dalla sinistra, con l’interno destro a rientrare, fece secco Bruschini. Alla fine ci sentivamo la morte nel cuore, perché non pensavamo che il Lecco non riuscisse a vincere in casa col Modena. Invece pareggiò, noi fummo promossi e in spogliatoio scoppiò l’entusiasmo”.

E questa è la festa del giorno dopo… Il Capitano, ormai preda della curiosità, si mette a sfogliare il libro. Ed ecco una foto di gruppo in montagna.

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“Questo è mio figlio!” esclama in tono sorpreso. E assieme al piccolo Rafael riconosce Bagnoli, Pasetti, Bertuccioli, Innocenti e Muzzio. “Tutti giocatori che venivano dalla B” aggiunge, come per esibire la prova definitiva che quella squadra era stata costruita con uomini adatti alla cadetteria. Poi altre immagini in bianco e nero incalzano la sua vivace memoria. E diventiamo due amici che si dilettano a rievocare comuni esperienze di vita. Ad ogni volto segue subito un nome, pronunciato in tono sorpreso, come per un incontro inaspettato. “Tutti ragazzi giovani. Io tra loro ero il più anziano. Qui dovevo avere già una trentina d’anni”.

Parliamo adesso di quel primo meraviglioso anno in cui realizzaste il miglior risultato di sempre della Spal in A: il quinto posto.
“Mazza all’inizio non si era reso conto di che squadrone avesse messo assieme. Tant’è vero che, nelle prime partite, non venne neanche in trasferta con noi. L’anno prima si era salvato per un punto e così aveva rinnovato la squadra dalle fondamenta, comprando Picchi, Balleri, Micheli, Morbello, il sottoscritto, e tanti altri. Alla fine, undici elementi nuovi”.

Me li lasci pronunciare ancora una volta: Nobili, Picchi, Bozzao, Micheli, Ganzer, Balleri, Novelli, Corelli, Rossi, Massei, Morbello. Davanti a voi lasciaste solo Juventus, Fiorentina, Inter e Milan.
“I capocannonieri fummo io e Guerrino Rossi con nove gol a testa. Ecco, se quella squadra avesse avuto un centravanti da doppia cifra, da quindici o sedici gol, avrebbe vinto lo scudetto. Era una squadra davvero indovinata, ma le mancava solo una punta con un maggior potenziale di reti. Facemmo un po’ come il Rosario Central che, arrivato secondo l’anno scorso in campionato, è entrato in coppa ma si è classificato al quarto posto: questo perché, per vincere in coppa, ci vogliono ventidue giocatori buoni e il Rosario in questo difettava”.

Allora Mazza, alla prima di campionato, non c’era a Napoli, dove vinceste 3-0.
“No!”. E scoppia in una risata ricordando il siparietto tra Corelli e il presidente, che fingeva di non credere all’impresa: “Mo dai c’lè stada tuta furtuna – diceva Mazza”. E Gianni che ribatteva: “No, president, aven vint ben, altar chè! E aven anc’ zugà ben!”. E li intorno tutti a divertirsi del reciproco canzonarsi di quei due ferraresi nel loro simpatico dialetto. E ancora non sapevano dell’esaltante campionato che avremmo disputato!”.

E lei era il perno di quella squadra, il regista dai piedi buoni.
“Era stato Memo Trevisan a farmi giocare in quel ruolo, alla Triestina. Era un ruolo che mi consentiva di dare il meglio, nonostante il ginocchio ancora risentisse dell’infortunio che avevo patito all’Inter. Legamenti crociati e menisco: un servizietto che mi aveva fatto Stucchi, il difensore della Roma. Il fatto è che mi operarono dopo sei mesi e io dovetti giocare col ginocchio malandato. Però anche dopo l’operazione non fui più come prima e non potei più giocare davanti”.

Veniamo ai primi anni dopo aver lasciato il calcio giocato: si ricorda delle formazioni della Spal che la impressionarono?
“Mi ricordo dell’era Caciagli, grande allenatore capace di esprimere bel gioco. Aveva giocatori di qualità che sapeva schierare bene in campo. Li ho visti spesso giocare e sono convinto che avrebbero meritato di più”.

A questo punto gli cade l’occhio di nuovo sul libro e riconosce Reja, Brenna, Bertuccioli, Bigon, Boldrini, Parola, tutti giovani amici che ricorda ancora con affetto: “Di Boldrini ricordo una partita a Udine, quando prese da Mazza centomila lire di multa per aver fatto un passaggio in laterale che ci fece incassare un gol. A me dispiaceva e così decisi, in qualità di capitano, di andare dal presidente. Gli dissi: ‘Presidente, se lei a questo ragazzo dà la multa, lui non gioca più tranquillo. Se è demoralizzato, per non rischiare, non prenderà più nessuna iniziativa e avrà sempre paura‘. E lui mi fa: ‘Te ne accorgerai quando sarai allenatore‘. E aveva ragione, perché l’allenatore ha la responsabilità di guidare la squadra, di stabilire delle regole e chi le trasgredisce deve subirne le conseguenze. Mi ricordo che, al tempo di Gibì Fabbri c’era un terzino destro di cui non mi viene il nome, che in campo non aveva troppo autocontrollo e così un giorno si fa ammonire in modo stupido. Ero in panchina con Gibì e gli dico: “Io lo toglierei, perché quello lì ci fa danni”. E infatti pochi minuti dopo fu ammonito di nuovo, restammo in dieci e perdemmo la partita. E’ inutile, a giocare al calcio ci vuole anche disciplina”.

Bertuccioli mi ha raccontato di essere stato anche lui multato, assieme a Moretti. Lui – come disse il presidente – “per scorribande oltre la metà campo” e Moretti per passaggio laterale.
“A quei tempi i difensori dovevano essere soprattutto interdittori. Una volta che avevano rubato palla, dovevano liberarsene subito e incollarsi all’uomo che dovevano controllare. Così non sapevano giocare in fase di costruzione del gioco. All’Inter i tre difensori centrali erano Vincenzi, Giacomazzi e Bernardin, tutta gente da nazionale che faticava a costruire gioco. Ricordo che Suarez doveva andare a prendere la palla in difesa. C’erano marcature tanto rigide che ai difensori si diceva, per ridere, che erano capaci di seguire il centravanti anche quando andava a fare pipì”.

Ma se oggi un allenatore impostasse la squadra per giocare a uomo non potrebbe avere successo?
“No. In questo modo si va contro le regole del calcio moderno. Oggi si gioca a zona: ogni difensore si occupa di tutti quelli che passano dalle sue parti”.

Qual è stato il difensore che lei ha sofferto di più?
“Trapattoni, che mi si incollava come una sanguisuga e non mi faceva respirare; Bolchi, dell’Inter, un mediano che non andava tanto per il sottile; Leoncini, della Juventus: tutti difensori utilizzati per soffocare la fonte di gioco avversaria”.

A proposito di Leoncini, mi viene in mente un gol che fece a Ferrara in un famoso 6-3 per la Juve. Ma io vorrei chiederle: quella sconfitta così netta fu più demerito vostro o merito dei bianconeri?
“Nooo, merito della Juve, senz’altro. Aveva Sivori e Charles: bastavano questi due a fare la differenza. Mi ricordo a Torino, quando tra noi ci dicevamo di fare attenzione al piede sinistro di Sivori e lui ci fece il primo gol col destro. Per me è stato uno dei più grandi giocatori della storia. Se si fosse tenuto bene, sarebbe stato un fuoriclasse inarrivabile. Invece, gli piaceva fumare, bere e fare vita non proprio da atleta. A diciassette anni lo comprò il River Plate, il cui numero dieci allora era Labruna, un vero e proprio monumento nazionale, uno del calibro di Di Stefano o Pelè. Ebbene, arrivando Sivori, diedero il dieci a quest’ultimo e a Labruna l’otto. Allora il numero contava e chi aveva il dieci si riteneva il leader della squadra”.

Grandissimo Sivori, davvero.
“Però erano importanti anche altri ruoli. Le ali, per esempio. Ce n’erano certe che erano dei fenomeni: non dimenticherò mai Nacka Skoglund, con cui ho avuto la fortuna di giocare assieme. La maggior parte dei miei gol li devo a lui: scendeva sulla fascia, metteva in mezzo e insaccare di testa era uno scherzo. Anche perché io guardavo la posizione del portiere e la palla la piazzavo, senza dare la zuccata a occhi chiusi. Ma c’era anche il brasiliano Julinho; e Jair, altro brasiliano. Tutti grandissimi giocatori”.

Mi fa venire in mente il passaggio di testa che fece a Mencacci contro l’Inter, il quale segnò con un altro colpo di testa.
“‘Claro‘: o la porta o il compagno. La palla la devi piazzare, come si fa col biliardo: si guarda bene la buca e poi si tira nella direzione giusta. Non ci si può buttare sulla palla con foga e colpirla a casaccio, pensando a ‘dove va, va‘”.

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