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A dodici anni un campo da calcio può sembrare veramente una prateria quasi sconfinata. Per non parlare delle porte: i 2,4 metri di altezza che separano l’erba dalla traversa rischiano di dare le vertigini. Eppure è questa l’età nella quale si inizia ad acquisire familiarità con gli spazi, le distanze ed i tempi del calcio dei grandi. Ed è anche l’età nella quale inizia una selezione vera, accurata, anche crudele per certi aspetti. I Giovanissimi 2005 della SPAL possono essere considerati una prima anticamera del professionismo: i ragazzi affidati a Massimiliano De Gregorio infatti sono al secondo anno di calcio a 11 e al primo di un campionato con altre squadre professionistiche.

Mister, partiamo dal fattore anagrafico: quanto la sua figura è più vicina a quella di un educatore che non di un allenatore? Quali sono i principali obiettivi? E quanto conta il risultato?
“Personalmente mi sento un istruttore, un educatore, un formatore. Allenatore mi piace veramente poco come termine, perché facciamo ancora parte di un’attività di base e il nostro lavoro deve essere incentrato soprattutto sulla tecnica individuale e sulla tattica individuale. Qui non parliamo ancora di collettivo. Quello del collettivo è una concetto che si svilupperà con il tempo. La cosa più importante è formare, oltre che dei giocatori, dei futuri uomini e degli atleti, perché non sappiamo in quanti avranno la fortuna di arrivare in prima squadra o al professionismo. E le statistiche purtroppo ci dicono che sono in pochi. Per quanto riguarda il risultato, posso dirti che è l’ultimo dei nostri pensieri. Abbiamo la fortuna di avere una società che non ci crea alcun tipo di pressione, se non quello di vedere sempre una crescita costante da parte di tutti i ragazzi”.

A questi livelli l’allenatore diventa anche un confidente fuori dalla famiglia. Una figura di riferimento fuori dal mondo del pallone.
“Sì, la differenza nasce soprattutto dal rapporto che l’allenatore riesce a creare con i propri ragazzi. Perché se riesce ad entrare in sintonia con loro è più facile che apprendano il massimo di tutto quello che gli può dare. Anche il fatto mio personale di non farmi chiamare mister negli anni precedenti ma semplicemente Max, era proprio volto a cercare di instaurare un rapporto di massima confidenza con loro e metterli a proprio agio. C’è poi da aggiungere che entrare in un centro sportivo di questo livello, a costante contatto con la prima squadra e uno staff tecnico molto organizzato, è una cosa che aggiunge un po’ d’ansia a ragazzini così giovani. Altro motivo per cui, qualsiasi cosa possiamo utilizzare per aiutarli a trovare più confidenza, è nostro dovere utilizzarla”.

A proposito del centro Sportivo: i ragazzi come vivono la ribalta della serie A?
“Per la metà di loro questo è il secondo o il terzo anno che fanno parte di questa squadra e quindi hanno vissuto la scalata della prima squadra direttamente dall’interno, sviluppando grande senso di appartenenza. L’altra metà dei giocatori viene da fuori provincia, per esigenze strutturali legate al passaggio in Serie A. Loro hanno pagato pesantemente l’ingresso in questa nuova realtà, perché passare da una società dilettantistica a questa dal punto di vista emotivo è un qualcosa di veramente impegnativo. È quindi stato nostro compito cercare di metterli subito a proprio agio e cercare di inserirli il prima possibile all’interno del gruppo, cercando di fargli capire che quest’ambiente non deve essere motivo di pressione, ma di sfruttarlo come punto di riferimento per crescere. Adesso stare qua per loro è una gioia”.

A fine anno bisognerà dire a qualcuno di questi ragazzi che è ancora pronto: è la parte più difficile per un allenatore a questi livelli?
“È senz’altro la cosa più difficile che io possa fare e che non vorrei mai fare. Sta a noi far capire che il calcio non è solo professionismo e i percorsi possibili sono tanti. Altrimenti creeremmo dei mostri. Già le famiglie che portano qua i propri figli hanno delle aspettative quasi sempre eccessive rispetto a quella che è la realtà e noi dobbiamo remare dalla parte opposta. L’importante è che rimanga viva la passione. Ci sono società dilettantistiche che fanno un grandissimo lavoro anche nella nostra provincia e che quindi possono dar modo loro di crescere e di continuare a coltivare il loro sogno. Magari il sogno di restare in biancazzurro è solamente interrotto momentaneamente, ma poi riprenderà fra qualche anno. Questo è quello che cerco sempre di dire ai miei ragazzini. Soprattutto, nella società in cui andranno, di impegnarsi e lavorare il più che possono per dimostrare a me e ai responsabili tecnici di questa società che ci siamo sbagliati nei loro confronti”.

A dodici anni in genere non si ha ancora ben chiaro come funzionano spazi e tempi del calcio dei grandi. Questo è un problema?
“Sì, è un problema che normalmente perdura in queste fasi. Però per questa fascia d’età considero la tattica collettiva un errore, quasi una perdita di tempo. Credo che adesso sia importante la tattica individuale: lavorare sul concetto di spazio e di tempo esclusivamente in funzione dei compagni, della palla, dell’avversario. Spazio, distanze e tempo sono una serie di aspetti che svilupperanno col passare del tempo durante il percorso che li porterà, nel giro di due anni, a fare un campionato nazionale dove lavoreranno sulla tattica collettiva, sul sistema di gioco, sul modulo di gioco. In questo momento noi diamo solo delle piccole indicazioni per metterli a proprio agio il più possibile sul terreno di gioco, ma il modulo in questo momento è l’ultimo dei nostri problemi. Ognuno di noi deve occupare il suo spazio, deve vincere il suo duello individuale, il suo uno contro uno, che è la base di questa attività, e deve cercare di aiutare i compagni quando sono in difficoltà e quando ne hanno bisogno”.

Si intravede già il peso della personalità del singolo a questi livelli?
“La personalità secondo me è una dote naturale e quindi già a questa età qua vediamo chi ha caratteristiche da leader così come chi ha più o meno paura di scendere in campo. Per dei ragazzini che provengono da un settore dilettantistico, trovarsi a giocare la prima partita di campionato a Bologna contro il Bologna è uno scenario che fa tremare le gambe, ma è già un buon banco di prova per capire chi ha una personalità più spiccata e chi meno. Non bisogna però confondere la personalità con l’esuberanza data dal fisico. La personalità è una cosa, il fatto di avere uno strapotere fisico e di dimostrarlo anche verbalmente solamente perché si è più grandi e più grossi degli altri è un’altra”.

Il gruppo dei classe 2005 che le è stato affidato che tipo di carattere ha?
“Ho trovato un gruppo fantastico dal punto di vista della voglia di lavorare e dell’approccio all’allenamento. È veramente strepitosa la gioia con cui vengono al campo ogni giorno. Facciamo quattro allenamenti alla settimana, per loro è un impegno notevole, però sono sempre motivati. Per quanto riguarda il percorso agonistico, in questo momento non siamo ancora completamente pronti per affrontare squadre che magari sono già anni che giocano e lavorano insieme. Noi investiamo molto sulla tecnica. Chiedo sempre ai miei ragazzi di effettuare il gesto tecnico, di provare il dribbling, di giocare, di non buttare mai via la palla. Questo ci fa perdere un po’ di aggressività e di cattiveria agonistica”.

Lei ha iniziato il suo percorso all’Accademia SPAL, quindi si può dire che ormai abbia una certa familiarità con il percorso di base.
“Sì, alleno dal 2001 e quindi un po’ d’esperienza l’ho maturata anche con i più piccoli, fino ad arrivare all’Accademia SPAL ormai quattro anni fa. La categoria dai 12 ai 14 anni è quella che a me piace più di tutte, perché segna un passaggio fondamentale dal giocare a pallone al giocare al calcio. In più è un periodo di crescita decisivo per la vita personale dei ragazzi ed è bellissimo vedere i loro progressi”.

Da questo punto di vista il meglio deve ancora venire: tra sette o otto anni potrà vedere se il raccolto sarà buono o meno.
“Il bello di fare queste categorie è che puoi veramente dare tanto ai tuoi ragazzi. Perché hanno un’età in cui hanno una voglia d’imparare che non si trova né prima né dopo. Prima sono troppo piccoli e hanno solamente, e giustamente, voglia di giocare. Quando sono più grandi entrano in una fascia d’età in cui non sei più istruttore ed educatore, ma sei solo allenatore e l’aspetto individuale a volte passa in secondo piano. Qua è bellissimo perché ognuno di noi deve riuscire a tirare fuori il meglio da loro. Da anni ormai guardiamo le partite di Serie A e non vediamo più un dribbling o un giocatore che salta un avversario con una giocata di pura tecnica. Se noi in queste fasce d’età non gli insegniamo che il calcio è quello, non miglioreremo mai. Se i ragazzi arrivano a fare un campionato nazionale dotati di personalità, cercano il dribbling e puntano l’avversario, a quel punto lavorare in un contesto di 3-5-2 o 4-4-2 sarà più facile perché avranno acquisito la consapevolezza di quello che sanno fare individualmente”.

Il gruppo dei Giovanissimi 2005 guidato da mister De Gregorio è composto da:

PORTIERI: Mafalda Simone, Martelli Luca.
DIFENSORI: Berselli Mattia, Guerra Alberto, Malka Edoardo, Mascellani Federico, Nappi Donato, Rivera Pablo, Sfameli Mattia, Verza Nicolò.
CENTROCAMPISTI: Bisan Edoardo, D’Agata Fabio, Pavani Filippo, Saiani Filippo, Zappi Luca.
ATTACCANTI: Allegrucci Federico, Cresta Daniel, Ghirardello Tommaso, Molinari Michele, Novi Stefano.

STAFF: all. De Gregorio Massimiliano, vice Guerzoni Nicolò, prep. atl. Ori Massimo e Balboni Lorenzo, prep. por. Gallo Luigi, dir. acc. Bonafè Enrico, fis. Turolla Ermanno.

le foto sono di Alessia Ietro