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Quante interviste avrà concesso Luca Mora da quando è a Ferrara? Due, tre? Non di più. Anche nei post partita in sala stampa lo si sarà visto neanche mezza dozzina di volte in trenta mesi scarsi. Questione di carattere, ma anche di opportunità. Così, quando il suo telefono suona nella mattinata di mercoledì, la premessa del centrocampista fuori corso a Filosofia è di quelle chiare: “Una chiacchierata la faccio volentieri, ma niente domande polemiche”. Ok, affare fatto capitano.

Un giornalista però le domande standard le deve fare, altrimenti passa per scemo o disonesto. E’ Mora che se ne va dalla SPAL o la SPAL che vende Mora per liberarsene?
“(Ride) La seconda domanda qual è?”

Se è vero che hai fatto tutto il possibile per rimanere qui una volta appreso di essere in vendita.
“Beh, è uguale alla prima che mi hai fatto! Normale che uno voglia rimanere se ha altri due anni di contratto, ma non c’erano più le condizioni. Quando me ne sono reso conto ne ho preso atto e ho capito di dover valutare le alternative”.

Negli ultimi tempi eri diventato una sorta di capitano non giocatore. Un ruolo del genere ti si addiceva?
“A nessuno piace stare in panchina, ma io non avevo alcun problema con questo. Anche perché il capitano ha tanti altri compiti che spesso prescindono dal campo. Anzi, ti dirò che ho trovato strano giocare così tanto, alla fine mi pare di aver fatto diciassette partite su venti. Mi aspettavo di farne meno. E personalmente sono felice di quello che ho fatto. Certo, uno può sempre fare meglio, ma penso di aver fatto la mia parte”.

I critici dicono: Mora in serie A fa fatica, inevitabile scenda di categoria.
“È una cosa che bene o male tutti i calciatori si sentono dire in un qualche momento della loro carriera. Nel mio caso non ero all’altezza della Primavera del Chievo, poi non ero forte abbastanza per la C2, la C1 e la B. Alla fine conta solo il campo. Ti garantisco che uno a questi discorsi non ci pensa. Gioca e basta, fa del suo meglio. Sono stati criticati giocatori ben più forti di me, figuriamoci. Forse io sono un giocatore da C che ha avuto la fortuna di vincere due campionati, non lo so. Ho sempre pensato solo a fare il mio dovere e sono orgoglioso di essere arrivato dove sono”.

Però è oggettivo che si fa più fatica a rincorrere Nainggolan anziché il mediano del Santarcangelo.
“Ah, bella forza, quello sì, ma la fatica la fanno tutti, perché in serie A ci sono 17 squadre che sono più forti della SPAL. Ma anche in quel caso non ci si pensa, li si rincorre e si cerca di fare il proprio meglio. Poi è un dato di fatto che in serie A la differenza fisica e tecnica in certi casi si fa abissale”.

Ti ricordi cosa si diceva dopo Benevento, alla prima di campionato dell’anno scorso? Mora da esterno in B non ce la può fare, non ha il fisico. Sembrò pensarlo anche il mister che ti spostò mezzala, facendo le tue fortune.
“Senz’altro questo spostamento mi ha reso la vita più facile, soprattutto perché io avevo iniziato la carriera da mezzala. Ho fatto il quinto per un paio di stagioni, ma ero adattato. Al mio spostamento comunque contribuì anche l’esplosione di Beghetto. Che poi dalla serie C alla B si avvertisse già una differenza di preparazione fisica è un dato di fatto. Anche se spesso sui giocatori si tirano conclusioni affrettate”.

Non è un po’ un peccato che per giocare in serie B o in serie A serva per forza essere delle specie di robot tutti potenza e velocità? Di fatto altre caratteristiche come l’intelligenza e la tecnica vengono un po’ svalutate.
“Ah purtroppo le cose vanno così. Ai massimi livelli contano soprattutto struttura, forza, velocità e resistenza. Tu puoi essere scaltro, leggere le situazioni in anticipo e provare a farlo valere, ma se uno ti viene addosso e ti fa volare via puoi fare poco altro. In alcuni casi il confronto è impari”.

Questo di fatto crea un calcio di giocatori assemblati nelle palestre delle grandi squadre e lascia poco spazio a quelli muniti di una solida gavetta.
“Chiaro, anche se capita ancora di partire dalle categoria minori e riuscire ad affermarsi in alto. Va da sé che per farcela devi giocare in squadre in grado di vincere dei campionati come è capitato qui”.

Per spiegare il successo della SPAL si è spesso parlato della coesione del gruppo. È la classica favola o è stato veramente quello a farvi volare?
“Parto da un presupposto: il gruppo originario era quello della vittoria del campionato di serie C. Che è rimasto in parte nella scorsa stagione con l’aggiunta di altri ragazzi. Ma più si sale e più è difficile ricrearlo. Intanto perché vincere diventa più difficile e le vittorie sono sempre il miglior collante per un gruppo. Magari già allora se avessimo perso di continuo ci saremmo picchiati anziché diventare amici e uscire insieme. Poi perché subentrano tanti fattori: c’è chi ha famiglia, chi è noto e non può permettersi di farsi vedere troppo in giro e chi ha uno stile di vita diverso dagli altri. Penso che in serie A sia difficile costruire un gruppo come quello delle serie minori, dubito ci sia qualcuno in categoria che possa permetterselo. Perché serve un’idea a lungo termine mantenuta nonostante tutto. Ma i risultati servono nell’immediato”.

Quindi il clima nel gruppo attuale è meno positivo?
“No, assolutamente, non ho detto questo. Il gruppo è solido, ma è chiaro che per i motivi che elencavo prima è più difficile sia quella la componente numero uno. Tocca al mister tenere tutto in equilibrio e far sì che anche nei periodi negativi non venga meno la tranquillità. Purtroppo le sconfitte intaccano un po’ il morale e più si va avanti più diventa complicato. Per la SPAL le prossime cinque o sei partite saranno fondamentali, lì si deciderà la piega della stagione”.

Sembri quasi sollevato nel non doverti più preoccupare di questo.
“Ma no, ci mancherebbe. Chiaro che adesso mi devo concentrare su una nuova squadra, ma il legame rimane perché rimangono soprattutto i rapporti umani che ho creato a Ferrara. Per me varrà sempre il principio dei tifosi: serie A, B, o C, la SPAL la sentirò mia a prescindere”.

Già da domenica la gente ti ha sommerso di pensieri e dediche: come stai vivendo tutto questo?
“Con emozione, inevitabilmente. Il telefono continua a suonare e arrivano di continuo chiamate e messaggi. Me ne vado dopo aver vinto due campionati, da capitano di una squadra di serie A. Non potevo chiedere di meglio e infatti tanti pensieri mi hanno commosso. Significa che ho lasciato qualcosa di positivo ai tifosi e alla gente che mi ha conosciuto. Vorrei poter salutare tutti a dovere, a modo mio”.

Come?
“Eh adesso non si può dire, ma qualcosa farò”.

Sei stato dipinto come il giocatore ideale che suda sempre la maglia e come il ragazzo della porta accanto che tutti vorrebbero frequentare. Insomma siamo ai livelli dell’agiografia. Non è un po’ strano?
“Per certi versi sì, ma capita quando si diventa simboli di una squadra. Penso che lo stesso trattamento verrà riservato a riservato a Manuel (Lazzari) quando se ne andrà, perché rappresenta un’epoca splendida per la SPAL. Ma più in generale penso che tutto dipenda dal fatto di aver sempre fatto una vita normale. Mi sono sentito, come d’altra parte gli altri della squadra, un’unica cosa con la tifoseria e la città ed è stato fantastico. E penso si divertissero anche i tifosi a vederci in giro, come persone normalissime”.

Sarai cambiato almeno un po’ in due anni. Quando arrivasti a Ferrara quasi nessuno ti avrebbe fermato per strada. Ora verresti assalito per foto e autografi.
“Beh quello sì. Ieri guardavo il video del mio primo giorno a Ferrara: sembra quasi ci sia un altro in quelle immagini. Gli ultimi due anni e mezzo sono stati senz’altro i più belli della mia vita. Mi sento cresciuto e ho sviluppato un legame con la città che per spiegarlo impiegherei ore. Ma questo di fatto non ha cambiato il mio modo di vivere o i miei interessi”.

Il fatto di essere uno che non usa i social e legge dei libri ti pone in antitesi con la categoria dei calciatori, eppure anche questo in fondo ha contribuito a renderti un personaggio degno di attenzione.
“Può essere, ma questo personaggio l’ho creato io o è stato creato dai media? Perché in fondo io non faccio altro che essere me stesso, ma inevitabilmente in serie A fa notizia il fatto che a me non piacciano le cose che normalmente piacciono ai calciatori. Quindi viene creato il personaggio controcorrente e si cerca qualcosa per farci un titolo: la filosofia, o la macchina…”.

Già, la macchina. Ormai la storia della Fiat Punto a metano è diventata mitologica.
“Sì, appunto. Tanti non sanno che io sono uno che ha i suoi tempi un po’ per tutto. Saranno sei mesi che mi dico che devo cambiare macchina, ma non l’ho ancora fatto. Tranquilli, lo farò”.

Quanto sei stanco di essere associato ai tuoi studi universitari?
“Abbastanza, ma anche in questo caso – per citare Tomba, non proprio un filosofo – chi mi conosce lo sa come stanno le cose. Cerco di sfuggire alle attenzioni perché semplicemente non mi piacciono, per questo cerco di leggere il meno possibile quello che viene scritto sulla squadra o su di me. Rimanere fuori dal clamore è il miglior modo per fare una vita tranquilla”.

Ma tra calciatori si può parlare di cose serie o sono solo auto, ragazze e via così?
“Sì, assolutamente. Anche se ce ne sono tanti nel loro mondo che pensano solo al calcio o non hanno interessi compatibili come i miei. Ma nel calcio siamo in tanti a vivere vite normali”.

Quindi si può parlare anche di politica?
“Beh, quello è un po’ più difficile. Anche perché allo stato attuale non è che puoi farlo con tanta altra gente anche fuori dal calcio. I giocatori di fatto vivono in una bolla: sono giovani, sono noti, viaggiano tanto, sono via di casa da tanto tempo. Di opportunità per farsi un’idea del mondo ce ne sono poche, figuriamoci discuterne”.

Uno con cui tu ne potevi discutere è il tuo grande amico Castagnetti, che già da sei mesi è ad Empoli. Chi sale in serie A tra te e lui?
“Probabilmente lui, la classifica per ora dice questo. Di sicuro sarò molto strano giocarci contro”.

Come sarebbe altrettanto strano giocare contro la SPAL.
“Non c’è dubbio. Chissà, speriamo possa essere un arrivederci”.

 



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