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Non vorrei fare un’epigrafe o una commemorazione, non ne sarei capace e non sono adatto a farla. Marco Contini su Repubblica ha scritto molto meglio di quanto io possa fare. E’ morto Alfio Finetti. Il menestrello della ferraresità, l’unico vero cantautore e poeta dialettale della nostra terra. Alfio è stato per Ferrara molto di più di quanto Pino Daniele sia stato per Napoli, Enzo Jannacci sia stato per Milano è stato (esagero) un Bob Dylan con la S e con la L. No, non sono diventato matto e non ho compiuto un delitto di lesa maestà. Pino ed Enzo, immensi artisti, erano sì espressione massima delle loro città, ma erano pure “esportabili” ed internazionali. Alfio era (è) solo nostro. E’ l’antropologia di noi stessi, è la genetica che si fonde in canzone e poesia popolare.

Sopra il Po e sotto il Reno, non può essere capito, ma non solo per la purezza del dialetto che usava nei suoi testi. Manzoni quando scrisse “I Promessi Sposi”, andò a “lavare i panni in Arno”, Alfio “lavò i panni nella Gramicia”, il suo gergo è la summa della nostra parlata. La poesia dei suoi testi raggiunge punte inarrivabili con “Al re d’la miseria”, canzone dedicata al nonno, vissuto tutta la vita a trenta chilometri dal mare senza mai averlo visto, canzone che mi bagna gli occhi dalle elementari. La sua musica è la mia infanzia a casa dei miei nonni in Via Carlo Cattaneo (Batiguàza centro, n.d.r.), seduto a terra su una dozzinale moquette marrone riccia e brusca, della camera di mio zio, tra un poster dei Bee Gees ed uno di Renato Zero, ho ascoltato fino a fonderlo il 33 giri di “Al condomini”, ridendo e commuovendomi assieme al nonno Vanes.

L’ironia e la tragedia, il pessimismo e la critica feroce innata del ferrarese, stemperata dallo sberleffo e dalla battuta, come stile di vita, come modus operandi. Il ferrarese al lavoro, in amore, allo stadio, in famiglia, immigrato. La nostalgia della pietra rossa, dei colori biancazzurri, del castello, della nebbia, del bar, degli amici. La sua in esportabilità andrebbe rivalutata, come Gilberto Govi a Genova, come Giovanni Bui (al cow-boy ad Pont Travai). La poesia da festa de “L’Unità”, andrebbe studiata meglio, in quanto espressione di un territorio orgoglioso e depresso. Sempre citando il bell’articolo di Contini, l’inno nazionale per i tifosi della SPAL “e un e du e trì, a tal dig mi che ag nin fen quàtàr…”, rappresenta tutta la nostra storia, passata, presente e futura. “A vinzaren la seri B” è la strofa che chiude il cerchio, di una vita intera. Un sogno che anche Alfio ha fatto in tempo a vivere. Che dire, le stagioni, il tempo che passa, frasi scontate, troppa tristezza, concetti troppo difficili, ed allora:

Giùan?
Oh!
G’at un pètan?
Ma da fartìn ? Chi fra pòc a vien fòra al lèon?
A nass sa mai c’ariva Tarzan…
e con Vitruvio in Kawasaki, in t’al curtìl è rivà i indian…
Ciao Alfio, tambourine man della ferraresità, o come dice Fioro, ultimo punk.



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