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In assoluto ci sono cose più importanti del calcio e della SPAL? Sicuro.
In questo drammatico momento di emergenza sanitaria globale ci sono cose più importanti del calcio e della SPAL? Innegabilmente.
Eppure parlare della SPAL, della sua gente, delle emozioni che ci ha regalato può essere comunque un buon modo per sentirci comunità e alleviare il grigiore di questo passaggio storico così complicato. Così LoSpallino.com ha scelto di riproporre la selezione di scritti realizzati dai componenti del Collettivo Laps, che da due anni a questa parte mette insieme l’opuscolo “S.P.A.L. tra le righe“, distribuito nei giorni della festa della curva Ovest. Quattordici scrittori, anzi quattordici tifosi curvaioli spallini, che con le loro parole ci proiettano nel mondo della passione biancazzurra.


— L’Esordio —

di Cristiano Mazzoni
(pubblicato nell’estate 2018)

Tano si guardava in giro stranito. Non capiva dov’era, eppure sembrava la sua borgata, più o meno. Riconosceva le case ed i palazzi a tre piani, i marciapiedi erano frantumati come sempre, ma tanti, troppi dettagli mancavano. C’erano in giro macchine bellissime, più tonde, più strane, gli sarebbe venuto da dire futuribili. Nessuna Fiat 127, nessuna Ritmo e nemmeno una A112. Tano erano ancora un bambino, anche se lungo e secco da sembrare un quasi adolescente, aveva paura di quell’ambiente così familiare, ma al contempo così lontano. Camminava guardandosi attorno, motorini strani, nessun Ciao e nessuna Vespa, al loro posto scooter marziani, guidati da ragazzi col casco. Poca confusione, calma piatta e soprattutto nessuno che giocasse a pallone per la strada, né nei cortili, il campetto era deserto e con gli alberi tagliati. La sensazione di angoscia gli aumentava in bocca, causandogli un sapore amaro ed acre in gola, come quando si mangia un rusticano, troppo acerbo. Non correva a casa perché aveva paura che al citofono nessuno gli rispondesse. Sapeva, il ragazzo, con esattezza che quel giorno era domenica. All’incrocio tra via Ungarelli e via Carlo Cattaneo, ebbe la tentazione di dirigersi verso la casa dei nonni, ma non lo fece, qualcosa di strano gli impediva di fare ciò che voleva. Avrebbe voluto scappare da quel mondo del futuro, ma era consapevole che quello fosse il suo destino. Un pallone rotolò all’improvviso fuori da un cortile con la recinzione verde. Un bimbo piccolo affranto, ne reclamava la restituzione. Tano, rincorse quella palla, strana a dire il vero, non era un Super Tele, né un Elite e nemmeno un Tango, era marchiato con lo sponsor di un supermercato. Il ragazzo fermò il pallone, prese una piccola rincorsa e op, con un scucchiaiata scavalcò l’immaginaria barriera e restituì il boccione (così chiamavano la palla i ragazzi della sua generazione), al bimbo, che felicissimo, lo ringraziò per la cortesia.

Tano era alle scuole medie, sognava di diventare un’ala destra, ma le sue performance, rimanevano nascoste all’ombra di un cortile quadrato, in un campetto a forma di zeta, o al massimo all’ippodromo. Suo padre, sempre gli diceva che per essere calciatori occorrevano i piedi, su questo Tano non fu mai completamente d’accordo. Per essere un calciatore occorre il cuore. Era la prima volta in vita sua, che la domenica percorreva quella strada da solo. E suo papà? E suo nonno? Non voleva chiederselo, aveva paura delle risposte. Incontrò via Foro Boario, alberata, la pista ciclabile sui due lati, il bar Total o Ozo era chiuso. Anzi peggio, il distributore era di un’altra marca, sconosciuta. L’angoscia evaporò, dopo che il ragazzo ebbe visto davvero, qualcosa di familiare. Un vecchio, col cappello in testa portava sotto braccio un cuscino bicolore, bianco e azzurro e procedeva lentamente ma senza indugio, verso il Ponte dell’Impero. Si dovette sedere Tano sul muretto del distributore. Certo che era domenica e le domeniche anche in quello strano futuro conducevano sempre nello stesso posto. In un catino, dall’erba verde smeraldo, dove la sua squadra rincorreva, dalla notte dei tempi, avversari dai colori smorti, per prenderli a pallonate. La Società Polisportiva Ars et Labor, la sua bandierina col cerbiatto rampante appesa in cameretta, la speranza di poter giocare anche solo una partita con quella casacca a righe sottili e dai colori del cielo, gli fecero tornare il sorriso. All’incrocio con via Argine Ducale, sulla destra, sopraelevato di tre gradini, il barbiere. Sempre aperto, abbarbicato su quella specie di altana a sancire i confini del suo territorio conosciuto. Finalmente un legame vero col suo mondo. Pensò alla sua mamma e una enorme dolcezza gli si strozzò in gola, si appoggiò al semaforo, per non cadere a terra, voleva scappare ma non sapeva dove, si guardò intorno, un microcosmo indaffarato che non aveva tempo per pensare a lui, bambino catapultato in un futuro strano, mentre lui ricercava il suo passato, fatto di certezze e di ancore di salvezza.

Renzi, Cavasin, Ferrari, Ogliari, Fabbri, Albiero e Giani, Rampanti, Bergossi, Tagliaferri e Grop. Gibo e Pezzato, Criscimanni e Manfrin, i suoi eroi, chissà se lo stavano aspettando al tempio della sua fantasia. Chissà se vedrà ancora una rimonta dal due a zero al tre a due per la Spal come contro il Cagliari, in Coppa Italia.
“E poi, quale sarà la nostra categoria? Seconda o terza serie?”;
“Non ho neppure l’album delle fingi, le doppie me le sono dimenticate a casa, come farò a scambiarle con i miei amici? Come farò”;
“Mi piacerebbe saper battere i rigori come Danilo, avere la forza di Fabbri, l’istinto del goal di Pezzato, l’elevazione di Gibo, i capelli e l’eleganza di Manfrin, mi piacerebbe essere un calciatore. Mi accontenterei di giocare nell’ A.C.F. oppure nell’Audax, anche se segnare sotto il curvone credo possa valere il prezzo di una vita intera”.
Intanto, dalle vie laterali, come una fiumana, una varia umanità, confluiva nella via principale e prendeva la direzione del ponte, ognuno avvolto nel proprio drappo biancoazzurro. Proprio sul ponte dell’Impero, un uomo di mezza età, sembrava aspettasse qualcuno. Tano ebbe un sobbalzo al cuore, stava per gridare la sua gioia, stava per correre a braccia aperte verso quella persona. Era suo padre. Anzi no, assomigliava a suo padre, forse era anche più vecchio, magari un poco più alto. Il bambino guardò l’adulto con un punto interrogativo grande come una montagna.
“Ciao Tano, è tanto che ti aspetto”.
“Ma come fai a sapere il mio soprannome? Poi, hai un aspetto familiare, ma non riesco a riconoscerti”.
“Eh bimbo mio, è troppo difficile spiegarti chi sono, diciamo che siamo parenti. Molto stretti”.
L’uomo era vestito in maniera sportiva, maglietta blu con il numero 12 sulle spalle, un paio di jeans, una sciarpa legata al polso, un’altra al collo ed una bandiera con due aste avvolta su se stessa. Sembrava lo spot di Supertifo. Il bambino lo studiava incuriosito, lui invece, aveva legata in cintura una sciarpona di lana chilometrica, realizzata all’uncinetto dalla nonna. Transitando sul ponte entrambi ebbero il riflesso condizionato di guardare in basso verso l’acqua nera del canale Volano, nel caso insperato di vedere il guizzo di un persico trota o la sagoma scura di una carpa a specchi. Parevano padre e figlio. A metà discesa entrambi si fermarono per osservare e commemorare a loro modo, la lapide del partigiano Bruno Rizzieri, decadente sul muro pericolante, che costeggiava la locale Società Canottieri.
“Sai Tano, la lapide commemorativa è stata spostata poco più avanti, dopo il terremoto”.
Il bimbo pensò al Friuli.

La via IV Novembre li accolse nella sua ombreggiata e rinfrescante camminata. Parlavano i due, tante cose avevano in comune, mille cose pareva avessero da dirsi, il bambino evitava di fare domande difficili, l’uomo evitava di dare risposte tristi. La svolta giù a destra, di fianco al muretto superstite della fortezza “a stella” di asburgica memoria. Fiancheggiarono la piccola giostra per bambini, fissa lì dalla notte dei tempi. La fontana, il chioschino del pesce, dove una volta la zia di Tano vendeva sgombri e sarde fredde, avvolte nella carta di giornale.
“Sai che una volta, mia zia vendeva il pesce dentro a quel casottino lì?” Disse l’uomo.
“Anche la mia”, rispose Tano.
Che poi a dire il vero era la zia di suo padre, ma i bis parenti, sono pur sempre parenti. Via Paolo V a sinistra, Via della Fortezza dritto. L’uomo senza indugi, prese la via a sinistra, il bambino senza discussioni prese la direzione della curva Est, lungo via della Fortezza.
“Io vado di qua, con mio papà e mio nonno facciamo sempre questa strada. Poi loro entrano dal parterre lato est, ed io, con l’abbonamento dal curvone”.
“Lo so disse l’uomo. Ci incontriamo sull’angolo vicino alla casa del custode”.
Nel percorso, fra mille e una domanda il bambino, si frugò nelle tasche. Sì, per fortuna aveva il suo cartoncino colorato, con i numeri sul perimetro, dove la maschera con la brucatrice obliterava le partite. Mancavano gli alberi dietro la tribuna, i colori della tinteggiatura erano lucenti parevano appena ritoccati, alte recinzioni proteggevano gli ingressi. I tifosi della Spal cominciavano ad assieparsi, per l’esordio di campionato in quella strana fine estate. L’elettricità friggeva l’aria, sorrisi lucenti caratterizzavano le facce delle persone che Tano incontrava lungo il suo cammino. Le farfalle nel suo stomaco si trasformarono in gabbiani, la voglia di far parte di quella comunità, di cantare le canzoni e di vedere i suoi beniamini, gli fecero brillare gli occhi. Sull’angolo dietro alla casa del custode vicino alla biglietteria, si rincontrò col suo strano, nuovo amico. Su via Ortigara, c’era la calca, Tano notò che mancava un pezzo di muro di cinta, il cancello di accesso allo stadio era più grande, il vecchio portone metallico del curvone era stato smantellato, ragazzi vestiti da posteggiatori avevano sostituito le maschere amiche sue, che gli timbravano l’abbonamento ad ogni partita. Tutto era diverso, tutto era uguale, nessuna cosa al suo posto, tutto ruotava attorno ad una confortante diversità. Perquisizioni, controlli, cancelli automatici, spiazzarono il bambino che quasi non riconobbe il suo stadio. Passato l’ultimo tornello, corse contro la recinzione del campo, dove c’era il cancelletto di accesso al terreno di gioco, guardò ai piedi della tribuna, rimodernata e lucente. Ed il parterre? non c’era più. Il campo se lo era mangiato.

Pensò a suo papà ed a suo nonno, come potevano ora percorrere quello stretto corridoio e raggiungerlo in curva ? Come avrebbe fatto a riabbracciarli? La solitudine lo abbandonò, quando l’uomo, il suo parente stretto, lo chiamò.
“Tano guarda che spettacolo”, gli indicò prima il verde smeraldo del campo, poi i colori della curva Ovest, un’ umanità fantastica stava prendendo posto, come le tessere di un puzzle su quei gradoni, che dal 1977 erano stati il loro appuntamento domenicale. Il loro rifugio contro le amenità della vita.
“Ma da che parte si sale ? Io sono sempre entrato da dietro, c’erano le scale e si sbucava direttamente al centro del curvone”, disse Tano.
“Ragazzo mio sì, una volta, ora si accede frontalmente, puoi vedere gli amici in faccia e stringere mille mani”, ribadì l’uomo.
“Posso farti una domanda che ancora non ti ho fatto ?”, chiese il bambino.
“Dimmi”, rispose l’uomo.
“Contro chi giochiamo oggi? Ma poi, in quale campionato militiamo questa stagione ?”.
“Ragazzo mio, appoggiati alla balaustra”.
Tano diligentemente si appoggiò, senza capirne il motivo.
“Oggi giochiamo contro l’Udinese, ed il nostro campionato è il sogno della nostra vita, da quando ascoltavamo le trasferte alla radio gialla, quella che si apriva in due metà, giocavamo nel cortile, ci immaginavamo mirabolanti avventure segnando eurogoal nei passi carrai del nostro palazzo. Siamo in seria A, bel, siamo in serie A. Siamo stati promossi l’anno scorso dopo la meravigliosa sconfitta di Terni”.

A Tano scesero due lacrime asciutte e grosse che gli rigarono le guance, un urlo, un abbraccio, il cuore gli esplodeva nel petto.
Il vecchio (quasi) ed il bambino provarono le stesse, identiche emozioni. Orgoglio, forza, coraggio, vicinanza, appartenenza, erano in mezzo alla loro gente, erano sul tetto di un mondo che non conoscevano, erano i tifosi della Spal di Ferrara, e non avrebbero più avuto paura, avevano raggiunto il loro impossibile, irraggiungibile sogno. I due risalirono i gradoni, piazzandosi, oltre la metà della curva in zona centrale, a poca distanza da dove si posizionava Tano con suo padre, vicino agli amici del Bar 4 Torri, poco più in alto di dove si metteva l’uomo, da ragazzo, qualche gradone sopra lo Zaganel. La curva andava riempiendosi, e i due sembrarono dissolversi nella pancia della Ovest, la voce della curva si alzava, i ragazzi entrarono in campo sulle note degli AC/DC, e in alto l’uomo ed il bambino, parvero diventare la stessa persona, senza età, nella gioia smisurata del momento, i ragazzi in balaustra iniziarono a scaldare le ugole e la passione ebbe inizio.
Dal basso il curvone, pareva un muro, ogni tassello era una storia, vecchi, giovani, bambini, veterani esordienti, l’anagrafe non contava, il curriculum neppure, tutti uguali nella loro diversità, erano degli ingranaggi onirici, di una utopia divenuta realtà. La squadra vestita coi colori del cielo, a righe sottili, abbracciava nel suo fortino, sui gradoni di una curva, nello spettacolo dell’ultimo stadio inglese d’Italia, una comunità legata da un’unica passione. La S.P.A.L. Per tutti quelli che c’erano prima, ci sono adesso e ci saranno dopo.



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