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Forse non tutti ne avranno traccia nella propria memoria, ma ci sono stati dei tempi nei quali i giocatori di calcio potevano essere intervistati seduti ad un tavolo di fronte ad un bicchiere di Campari, oppure addirittura su un tram milanese pieno di pendolari. Era un’epoca nella quale non c’era ancora il marketing sportivo a stabilire le regole del gioco. Certo, non c’erano nemmeno i diritti televisivi o le restrizioni anti-pandemiche. Fatto sta che ora, in molti casi, le interviste neanche più vengono fatte dai giornalisti. Tutta un’altra storia. Oggi ci sono gli uffici di comunicazione dei club.

[Il profeta del gol, di Sandro Ciotti – 1976]
La retromarcia in questo genere di processo non è contemplata (come in ogni altro processo storico) e lamentarsi, in fondo, serve a poco. Far presente una lieve sensazione d’imbarazzo però non costituisce formalmente una lamentela. Per cui nel giorno in cui la SPAL pubblica 7 minuti e mezzo d’intervista fatta in casa a Federico Viviani, viene spontaneo chiedersi – appunto con un pizzico d’imbarazzo, probabilmente giustificato – se la stampa sportiva serva effettivamente ancora a qualcosa, a Ferrara come altrove. A qualcosa che ovviamente non sia raccogliere le briciole che cadono dal ricco tavolo imbandito delle società e dei relativi uffici di comunicazione. In questo caso a trascrivere qualcosa di forzatamente artificioso.

Non è da ieri che i club si sono buttati sui concetti di verticalità del contenuto, posizionamento strategico, engagement e avanti così col vocabolario Infrontiano. In fondo si tratta di spazi da vendere, ha davvero poca importanza che siano su una maglia o su un fotogramma di un filmato. Grazie al paravento del marketing l’obiettivo non dichiarato del calcio – inteso come industria – è ormai da tempo quello della disintermediazione. Intrattenimento, non certo informazione. Dal produttore al consumatore: il passaggio mediano è superfluo. Vale tanto per le organizzazioni quanto per i singoli atleti, che non mancano di raccontarci la loro versione della storia senza che un dubbio possa essere instillato.

E se proprio deve esserci un’interazione questa deve essere burocratizzata all’estremo, scrutata preventivamente e poi controllata in tempo reale. Dalla serie C in su parlare con un calciatore in privato, senza un addetto alla comunicazione seduto ad un paio di metri, viene considerato un privilegio assolutamente inammissibile. Quasi eretico. Si sa mai che possa crearsi un po’ di reciproca empatia e ne possa nascere una conversazione autentica.

[Giampiero Galeazzi e Diego Armando Maradona – 1987]

Molto meglio fare un’auto-intervista. Non siamo ai livelli marzulliani di “Si faccia una domanda e si dia una risposta” ma quasi. A che servono le domande di uno o più giornalisti se queste possono essere accuratamente selezionate per compiacere l’intervistato o tutt’al più scelte con un sondaggio attraverso le piattaforme social?

Viviani non interagiva formalmente con la stampa ferrarese dal 14 luglio 2018, quand’era ancora fresco di riscatto dall’Hellas Verona dopo il suo primo anno a Ferrara. Da allora non solo ha (probabilmente) accumulato qualche motivo d’astio verso i cronisti locali a causa giudizi non proprio lusinghieri, ma ha anche vissuto due anni e mezzo di carriera tutt’altro che entusiasmanti, comprensivi di due traslochi (Frosinone e Livorno) e di legittimi cattivi pensieri. Non sarebbe stato malaccio – per fare un esempio – potergli chiedere (pure) di tutto questo, ovviamente con le dovute accortezze. Più in generale non sarebbe stato così male provare a raccontare – attraverso le domande, appunto – un percorso umano fatto inevitabilmente di alti e bassi. Delineare un ritratto autentico, comprensivo anche di tutto ciò che non ha funzionato.
Evitare ai calciatori il contatto con i giornalisti significa di fatto ammettere che i diretti interessati non siano dotati dell’intelletto necessario non solo per articolare un pensiero critico, ma anche per declinare educatamente la risposta ad un interrogativo eventualmente ritenuto scomodo. Poveri: sono già stressati così, evitiamo di crear loro ulteriori pensieri (…).

Ma poi così sicuri che al pubblico la disintermediazione spinta piaccia così tanto? Qualche dubbio è giusto averlo, soprattutto in un ambiente percepito sempre più avido, finto, opportunista e che sta progressivamente allontanando le persone dalla loro passione. Nell’esporre i propri pezzi solo dopo un’accurata lucidatura, le gioiellerie del calcio operano un sostanziale inganno. L’equivalente di una partita giocata col risultato concordato. Le auto-interviste ci raccontano di spogliatoi sempre in piena armonia, di motivazioni scintillanti, di propositi brillanti. Privano i tifosi della legittima curiosità e della complessità che riguarda i percorsi professionali e di vita dei protagonisti. Delle opinioni che a volte possono essere anche essere scomode e controverse. Di contro le società fanno sapere al loro pubblico, subdolamente, che non si deve preoccupare delle cose brutte. Che è tutto pienamente sotto controllo. Good vibes only e altre cazzate da post di Instagram, quando la realtà tende un pochino di più al complesso.

Vengono in mente alcuni concetti espressi dall’impareggiabile Gianni Mura in un’epoca quasi insospettabile. “C’è una gran cupezza in queste comitive di atleti tenuti sotto vetro come batteri o in bunker come criminali o così lontani, come stelle. Ed è la violenza di quel poco potere che hanno ancora le squadre […]. Noi dovremmo essere l’anello di congiunzione tra protagonisti e fruitori: non lo siamo. […] La tv provvede a tutto e la pioggia di dollari è già caduta dove doveva cadere. Paradossalmente, ma non tanto, una manifestazione <<per>> è diventata una manifestazione <<contro>>. Non avvicina, allontana. Non mostra, maschera“. (Gianni Mura, “Dalla parte dei respinti”; 1986)

Il riferimento era al Mondiale in corso allora in Messico, ma la sostanza cambia di poco. Nel calcio iper-mediatizzato del secolo XXI una SPAL che si pone su un piedistallo alto come quello delle multinazionali del calcio semplicemente non ha senso. A maggior ragione in serie B e in un città come Ferrara. I tifosi delle multinazionali sono sudditi, quelli della SPAL se la sentono dentro per davvero e vorrebbero viverla. Capirla e volerle bene anche con tutti i suoi difetti. Senza illusioni audiovisive, pretese di perfezione o scelte che giustificano la paura di non poter sembrare in grado di conseguirla.