Non poteva che terminare di domenica, nel giorno consacrato al pallone, la vita terrena di Giovanni Galeone, uno dei maestri del calcio italiano degli anni Ottanta, Novanta e primi Duemila. L’ex tecnico della SPAL (dal 1983 al 1986) si è spento all’età di 84 anni a Udine, sua città di adozione che lo ha visto protagonista a più riprese sulla panchina, ma non solo, visto che in bianconero era stato anche giocatore.

La sua esperienza ferrarese, vissuta interamente in serie C1, fu avara di soddisfazioni sul campo se si considerano le aspettative dell’epoca, ma ciò non toglie che nel suo complesso la SPAL di Galeone sia considerata ancora oggi una tra le più appassionanti viste nel secolo scorso e che lo stesso allenatore sia ricordato con grande affetto e ammirazione dai tifosi.

Per raccontarlo in sintesi è il caso di prendere in prestito le parole di due maestri del giornalismo sportivo ferrarese, Mauro Malaguti e Paolo Negri, entrambi testimoni diretti del triennio del “Galeo” in biancazzurro. “Galeone è napoletano, trapiantato a Udine, ma napoletano, quindi filosofo” scrisse Malaguti nel suo volume SPAL 110 (2017, Gianni Marchesini Editore). “È anche un esteta, un idealista scapigliato. Ama il bel calcio e non è tipo da arrabbiarsi, mai. Quando è stizzito indossa il sorriso e con un fil di voce usa la frusta dell’ironia. Indimenticabile la sua risposta a chi vede troppo spesso i giocatori alla discoteca di Cona (dove non era raro trovarlo insieme a loro): ‘Per essere la squadra del Rocchino non siamo male’ sussurrerà sghignazzando dopo un 4-0 alla Sanremese“.

I suoi tre anni rimangono incancellabili e il bello è che la SPAL non vinse niente, non lottò mai per la promozione, e anzi nella stagione di mezzo andò a un certo punto alla deriva, rischiando seriamente la retrocessione. Ma con lui la SPAL trovò enorme unità d’intenti, dentro e fuori dal campo. Galeone sapeva insegnare calcio come pochi e le sue squadre avevano lo stesso spirito lieve e irresponsabile delle sue battute. Sotto l’aspetto tecnico è stato un bravissimo maestro, su quello cabarettistico non ha avuto rivali“.

La prima SPAL di Giovanni Galeone, stagione 1983/1984

Il bilancio sportivo insomma non racconta neanche lontanamente l’impatto calcistico e culturale che Galeone ha avuto nella storia della SPAL: 69 partite nell’arco di tre campionati con 26 vittorie, 25 pareggi e 18 sconfitte. 72 gol fatti e 64 presi. Un quarto posto, un quattordicesimo, infine un sesto, tutti in C1.

Racconta Paolo Negri nel volume “La mia SPAL” (2004, Gabriele Corbo Editore): “Considero Galeone potenzialmente il miglior allenatore passato da Ferrara, anche se questa considerazione può apparire ingenerosa nei confronti di Caciagli. Di certo metterei lui sulla panchina della mia SPAL ideale. Amava un calcio spettacolare, d’attacco, estetico, ricco di bei gesti. Sul campo Galeone spiegava, mostrava, richiamava in continuazione. Non apprezzava i calciatori di personalità modesta, lineari e prevedibili nel gioco, detestava i difensori che si aiutavano con le mani, aveva un debole per gli artisti con i quali instaurava un rapporto di odio e amore“.

Era capace di stranezze quali appoggiarsi sul muro del Centro (oggi intitolato a GB Fabbri – ndr) in pieno gennaio, in maglietta a maniche corte e pantaloncini, per prendere il sole. E se gli chiedevi se non avesse freddo ribatteva che il caldo e il freddo sono solo una questione psicologica. A fine allenamento, prima di intervistarlo, bisognava aspettare che facesse giocare il suo cane, che portava regolarmente al campo: per almeno un quarto d’ora si dedicava a far correre e saltare il cane, poi era a completa disposizione. C’era un bel rapporto con lui, il personaggio era speciale“.

Galeone assieme ai collaboratori (e amici) Pasetti e Bozzao / dall’archivio della famiglia Pasetti

Altri tempi, altri valori dominanti, altro calcio, che non doveva fare i conti con i protocolli rigidissimi e le ridicolaggini di un’idea di comunicazione tenuta sotto maniacale controllo in ogni suo passaggio. Galeone ha smentito fragorosamente il luogo comune per cui per essere degli allenatori amati dal pubblico sia per forza necessario essere vincenti. A volte si scopre che basta essere semplicemente sé stessi e avere la possibilità di mostrarlo agli altri.

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