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La distanza è ragguardevole. Sì, d’accordo, la posizione è centrale, loro ci piazzano solo due uomini. Certo, Vicari è il ministro della difesa, classe eleganza, forza fisica, buoni piedi, ma tirare una castagna da 35 metri, di seconda poi, non è mica facile. Stiamo attaccando come dei satanassi, non dobbiamo perdere una buona occasione, forse è meglio provare a metterla in mezzo. Ma, cosa succede? Schiatta la scucchiaia. La palla scavalca la barriera con una circonferenza disegnata con un goniometro di precisione. No, non quelli che utilizzavamo noi alle scuole medie, quelli metallici certificati in un laboratorio Lat, quelli che utilizzano nelle industrie metallurgiche di precisione, dove si costruiscono le componentistiche per le astronavi. La parabola è lenta, troppo lenta, ma troppo giusta, mi verrebbe da dire calciata di giustezza, ma io non sono un giornalista sportivo e quindi lo scrivo ma mi dissocio da me stesso.

Dicevamo, la palla è in aria, i due in barriera (folli, ma non sapete che sta calciando Schiattarella?) saltano, la sfiorano, i capelli dei due puliscono la sfera da un filetto d’erba infilato nelle cuciture. La parabola discende, e in area sopraggiunge un falco. Mirko, non la stoppa, sarebbe riduttivo, tutti i giocatori lo sanno fare. Ma lui no. Non la stoppa, la appoggia, come se al posto del piede avesse una mano, dolcemente sull’erbetta fresca.
Con delicatezza. Il tempo non passa. Siamo in apnea. Ma cosa pensano i difensori avversari? Sono allibiti, il Nibbio li ha bruciati. Loro pensavano alla botta di Vicari, pure il portiere la stava aspettando. Ma invece no. I nostri due geni si passano la palla come due bimbi al parchetto, con la sola differenza che 8.400 persone li stanno guardando. Dicevo: Ante l’ha messa a terra, come se avesse appoggiato un uovo. A tu per tu col portiere, il difensore, ha acceso il Tom-Tom, ma è troppo tardi. Piatto, piazzato, spizzato e spiazzato il portiere, con delicatezza, la rete si gonfia appena. E noi? Impazziamo, faccio un urlo talmente lungo, che Ian Gillan sarebbe fiero di me. Ci abbracciamo. Bacio il dottore. Per fortuna che ho gli occhiali da sole, tipo Ray Ban, ma Polaroid, (roba da proletario), perché sì, gli occhi mi si affogano nelle lacrime.

Forse esagero. Esageriamo? Chi non c’è mai stato non lo può sapere, non lo può neppure immaginare. Sì certo, lo può commentare, ma non capisce, non conosce, non lo sa. Che cosa vuol dire un gol così? Un campionato così? Una squadra così? Una curva così? Non si può descrivere con le parole. E’ il riscatto, siamo noi bambini nei cortili degli anni Settanta, che orniamo ad essere noi stessi, sono le lunghe interminabili favole che ci raccontavamo sopra a scatolati in cemento che contenevano la spazzatura, sono le corse su in due sulle Grazielle, sventolando una bandiera col cerbiatto, sono i gol del Volpino e dal Gubon, sono le punizioni calciate contro i portoni dei palazzi con un Elite, sono il Mitre regalato per il compleanno, sono i rimbalzi infiniti del Tango. Ci sono ricascato un’ennesima volta, la sindrome di Max Pezzali si è impadronita di me. Ma io ho una testa piccola, scrivo di poche cose, ma la SPAL, la borgata e l’infanzia, mi attanagliano. Emergono da me quasi senza che io lo voglia. Ma non si spiega altrimenti che cosa è il secondo goal di Mirko.

Primo tempo difficile, ma poi la Ovest, la grada e la tribuna sono scese in campo. Noi siamo veramente il 12° uomo, al Maracanà di Ferrara è difficile vincere, se non indossi una maglia a righe strette bianco-azzurre. A fine partita cantiamo, (sono due ore buone che lo facciamo), “il treno, treno speciale, che Ferrara, porta in…” avevo poco più vent’anni l’ultima volta che l’ho cantata, poi ancora “è tanto già lo so che l’anno prossimo gioco all’ …”, azz la mia fottuta memoria, che mi fa dimenticare il finale delle canzoni. Di padre in figlia. Mia figlia grande ad inizio partita mi fotografa, da lontano, mai troppo vicina al papi, perché per quelle due ore, su quei gradoni è zona franca, è lecito dimenticarsi di ogni debolezza, di ogni pensiero, di ogni scalino che la vita ti mette davanti. Perché noi siamo Ars et Labor ed abbiamo fame. Questa volta scendendo i gradoni non mi fanno male le gambe, la serotonina ha fatto il suo lavoro, con un cocktail di lacrime e adrenalina, mi ha bonificato i muscoli.
Sul portone della Ovest abbraccio un poeta pescatore. E sono felice. Sorrisi, pacche sulle spalle, battute ed abbracci, fino alla macchina, rigorosamente parcheggiata vicino alla “Canottieri” e via verso la vita reale.
Ma poi, siamo sicuri che la vita reale non sia su quei gradoni?



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