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Tanto tempo fa, un’era geologica, durante uno degli ultimi programmi che Mike Bongiorno fece con mamma Rai, avvenne un fatto strano, eclatante. La tv aveva due canali, in casa mia la banda quinta non era ancora arrivata, il cassone in bianco e nero era il nostro focolare, di una piccola famiglia di borgata. Padre sindacalista, madre impiegata e figlio unico. Una vita analogica, di digitale vi era solo il dito che cambiava canale direttamente dall’apparecchio televisivo. Dicevamo Mike, espresse la domanda ai concorrenti: quale era la squadra di calcio con più tifosi, in Italia? Credo ci fosse un tabellone con sei o forse otto posizioni. I concorrenti si sbizzarrirono, sciorinando le solite, Juve, Milan, Inter, Roma, Toro… eccetera. Ed il tabellone luminoso accese le posizioni di testa. Ci fu ovviamente un vincitore.

Ma il (non ancora) vecchio Mike volle scoprire anche le posizioni successive, con la sua carpetta blu, pose una domanda ai telespettatori, chiese: “Sapete che squadra occupa la decima posizione come squadra più amata in Italia?”. Chiaro che ogni italiano nel chiaroscuro del proprio soggiorno, appollaiato sulla tomana, immaginò la squadra della propria città. Io, bambino, feci lo stesso, mi immaginai che Mike potesse dire la mia squadra grande, quella di Manfrin, Gibo e Pezzato. Il conduttore lo disse. La decima o giù di lì squadra più amata dagli italiani sul finire degli anni di piombo era… la Società Polisportiva Ars et Labor. In casa mia, nell’appartamento di via Ungarelli al secondo piano scoppiò un boato, padre e figlio e madre applaudirono alla notizia. Mi ricordo chiaramente l’orgoglio, il senso di appartenenza, la gioia di sentire pronunciare quelle quattro lettere in sequenza, divise, solo dai puntini S.P.A.L. La mia squadra.

Nella mia cameretta in un quadernone color Jeans erano racchiuse le mie statistiche: partite vinte, goal fatti, goal subiti, ritagli di “Forza Spal”, immagini dei goal, ricalcando, alla finestra le immagini del Guerin Sportivo, (sì quel giornalaccio che quest’anno ci dava per retrocessi alla prima giornata). Quell’immagine di Mike, è impressa a fuoco nella mia memoria di bambino anziano. Come l’abbonamento che la maschera ci bucava partita per partita nei due lati della tesserina di cartone. Un mondo antico, passato, che però è stato il nostro punto di partenza, l’amore nasce da lì. Ed ora, stiamo vivendo l’impossibile, l’impensabile. Non stiamo vivendo un sogno da adulti. No, stiamo vivendo un sogno infantile. Solo i bambini possono sognare così in grande, solo i bambini credono di essere i loro eroi, ogni bambino calciando contro il muro di un cortile si immagina di segnare sotto il “curvone”. I bambini hanno sogni talmente impossibili, da trasformare un cancello in una porta, un cortile in uno stadio, un goal di punta in una sforbiciata, una squadra nella SPAL. Lo so, sono completamente fuori tema. Ma sono fuso, il Trebbiano con cui ho innaffiato la cena, era buono. Quello che sta capitando non lo commento neppure.
La matematica non è un pignone e neppure una corona.

Vorrei che fossimo già sotto l’ombrellone, in modo da sapere già cosa è successo, ma poi ripensandoci, vorrei già essere a martedì, per essere la tra la mia gente, a cantare, sbraitare, soffrire, impazzire. Sto arrivando senza forza e senza parole alla fine di questo articolo. Non ho ben chiaro che cosa voglio dire, non ho in mente una chiusura, ma tra i tasti di questo bolso computer, mi sembra di sentire l’odore dello zolfo, l’aroma delle vecchie sigarette MS, l’umidità ed il vapore, degli anni Settanta. Noi siamo nel XXI secolo e stiamo vivendo l’impossibile, stiamo rivivendo le gioie ed i sapori degli anni Cinquanta, quando mia mamma, ragazza, si agghindava con un foulard biancazzurro nei capelli e tutti i negozi, erano tinti dei colori del cielo, via Bologna era satura di biciclette, con stendardi svolazzanti, la guerra era finita da poco, mentre il sogno stava cominciando. Ora noi siamo lì, manca poco. Stiamo vivi, teniamoci per mano, sosteniamoci, abbracciamoci. Amici miei, tocca a noi, lo diciamo come un mantra, ce lo meritiamo. Stiamo arrivando. E tanto già lo so, che anche stanotte, non dormo un cazzo.



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