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Come si comincia a raccontare un sogno? Qual è l’attacco giusto per descrivere un’epopea durata un anno, collegata a doppio filo ai tre anni di gioie inimmaginabili? Forse partendo dall’inizio, da una settimana durata come il Paleolitico.

Lunedì scorso i continenti erano ancora attaccati e la Pangea nuotava nella Pantalassa o viceversa. La domenica sera è trascorsa nel viaggio di ritorna da Milano, dove ho partecipato ad un bell’evento che mi ha dato grosse soddisfazioni, ed in un qualche modo ha lenito l’ansia per la sconfitta, forse immeritata contro il Toro. Ma poi, c’era da affrontare un’intera settimana, con i colleghi esasperati dalla mia interminabile bolla spallina, sono il catalizzatore dei pensieri di chiunque abbia qualche cosa da dire sul nostro folle amore. In troppi, in tanti non capiscono. Ed io li capisco, non è facile raccontare di una passione imprescindibile come la nostra, che col calcio nulla c’entra, non si classifica in nessuna voce “sport”, non stiamo parlando di una partita e di ventidue ragazzi che in pantaloni corti rincorrono un foot-ball. E’ troppo altro e le parole rischiano di diventare ripetitive, solo le emozioni e la passione ci azzeccano, con quei colori.
Il lunedì è fetente per definizione, quando poi perdiamo è quasi inaffrontabile, a fine campionato assomiglia ad un’agonia. Sono distratto, mi estraneo, galleggio, mi faccio viaggi, mi canto canzoni e ritmi della curva, di notte sento i suoni dei tamburi, vedo sciarpe e bandiere sventolare sopra il Mazza, assaporo l’odore acre di una torcia. Sì, credo che tutto ciò possa classificarsi come patologia, delirium spallinum tremens, alquanto contagioso ed aggressivo. Come si può vivere una passione in maniera pacata e controllata? Come puoi tappare, dentro i limiti del moderato, un sentimento che è aggrappato al nostro stomaco dalla notte dei tempi?

Martedì, neppure parlarne, sono stato assalito dai demoni dei complottisti, che sanno, che conoscono il cugggino, dell’amico, dell’amante, del vice magazziniere del Napoli. Mi sono imposto di non leggere nulla sui social, deleteri e terrificanti, il giornale mai sfogliato nemmeno su internet. Silenzio assordante, frastuono di un rubinetto che perde, durante una notte di luna nera. Sfiga abbandona questa comunità.
Il mercoledì ed il giovedì non sono stati migliori, si avvicinava l’appuntamento col destino, ma non arrivava mai. Hanno fatto in tempo ad estinguersi i dinosauri, ho visto il meteorite arrivare ed infiammare il cielo, ma nessun Armageddon all’orizzonte. Venerdì, finisce il campionato che precede il nostro, ora non ricordo la lettera che lo contraddistingue. Non vedo un’immagine e neppure leggo, mi pare di capire che il simpaticissimo Parma ce l’abbia fatta ed il Frosinone con la curva imbandita per la festa invece no. Ho i brividi. Potessi ascoltare sempre gli AC/DC in cuffia per le restanti ore che mi separano dall’evento epocale, lo farei.

Sabato, faccio i lavori di casa, pochi e senza voglia, sono molto in clima partita. Vero, la categoria non c’entra, non è la seria A che ci attrae, un campionato di molto sopravvalutato, lustrini, plastica, televisioni, multinazionali e soldi, no non è quello, è la giustizia, il merito, la voglia, la grinta di autodeterminarci, la consapevolezza di essere dei “Pasquini” (come al tempo dello Stato Pontificio) e di poter essere delle serpi in seno (cit.) ad un ambiente che ci vede come delle formiche nei confronti dei giganti. Esistevano altre metafore più colorite, ma per una volta prendetemi moderato. Vogliamo scombinare le carte a lor signori, con la forza del nostro orgoglio provinciale, con la potenza inarrivabile della salamina, dei cappellacci e del clinto. Sabato notte si dormicchia, come pure le precedenti, sonno agitato e leggero di chi è consapevole di avere un appuntamento col destino prenotato mezzo secolo prima, (cazzo, non ero ancora nato, allora sono giovanissimo, n.d.r.), da sottolineare che il CUP già allora funzionava da schifo.

Arriva, finalmente, il giorno della disfida. Vago, fingo di far ginnastica, cyclette, tappetino a terra, pesetti, cerco di farmi di attività fisica, dormicchio, mi alzo, mi giro, salgo e scendo le scale, sembro una bestia in gabbia. Arrivano le 15,30. Parto. Sosta al baretto all’angolo, due chiacchiere con alcuni sampdoriani, che gufano e mi costringono a strizzare gli amuleti. Finalmente a casa. Baci, abbracci e paura. Qualcuno ha utilizzato qualche ausilio per tenere sotto controllo l’ansia, chi spremute di luppolo, chi direttamente lo Xanax o equivalente.
Scende il bandierone e ci abbraccia sotto il suo calore, per un attimo ho temuto che fosse il vecchio bandierone (oramai a brandelli), che venne sfoggiato ai tempi del 3-6 col Como. Ma per fortuna siamo nei tempi moderni.
Dopo poco, ci annullano un gol, anzi no ci danno rigore, anzi no attendiamo il VAR. Siamo in stato confusionale, minuti eterni per avere un referto cinematografico. Sì, rigore è quando arbitro fischia e quando VAR non scassa la m*****. Calcia il lupo e timbra la sentenza. BARAONDA. Impazziamo, come al solito ci strizziamo tra mille braccia.
Concentrati. E’ ancora lunga la partita ed il sogno è vicino. Il primo tempo fluttua, buona notizia dal San Paolo.
Secondo tempo, Grassi ed incomincia la festa.

Ancora il lupo, 3-0 per noi, undici gol a referto, un cuore grande come la città, forza, coraggio, orgoglio, l’uomo della provvidenza che assieme ad un manipolo di eroi, tiene la SPAL in categoria. Un campionato che ha un bisogno assoluto di favole del quarto stato, come noi, nel panorama di nobili decadute il calcio italiano dovrebbe fare un monumento alla SPAL, alla sua gente, alla sua goliardica voglia esserci. Per dimostrare che Davide può giocare con Golia e spesso lo può pure menare, perché la Ovest, non è un punto cardinale al femminile, ma la curva più bella d’Italia e la sua umanità, vince per distacco da tutti gli altri. Poi, il castello ammantato dalla nebbia dei fumogeni, arrossato dalla rossa luce delle torce, ha un fascino che sa di eternità. Grazie ragazzi.



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