Certe notti la curva è bollente
E dove ti porta lo decide lei
Certe notti la Lazio non conta
E quello che conta è sentire chi sei
Certe notti i cori son forti
I ragazzi laggiù han capito chi sei
Certe notti somigliano a un tizio
Che tu non vuole segnare e non smettere mai
Certe notti fai un po’ di difesa
Che sembra che gli altri rimbalzino via
Quelle notti fra abbracci e gestacci
E l’odore del Mazza a cui dai del tu
Certe notti c’hai qualche ferita
Che il tuo grande amore disinfetterà
Certe notti nei bar dello stadio,
con qualche tuo amico si festeggerà
Non si può restare soli, certe notti qui
Non ci si accontenta, si gode e si grida
In questa curva qua
Certe notti sei sveglio, ti par di sognare,
il bianco e l’azzurro, che brilla laggiù
Ci vediamo da Claudio prima o poi
Certe notti ti senti padrone di un posto
da sogno, dove ci si abbraccerà.
La partita perfetta. Neanche sognando con le mani, costruendola, una notte così viene fuori uguale. Il turno di metà settimana mi scompagina, il mio povero unico neurone non capisce che succede. Sono in ufficio, ma ripasso i cori della curva, lavoro come un automa giapponese, ma penso a lei. Ho già in macchina tutto l’occorrente, il mio inseparabile due aste, due sciarpe e indosso le mie New Balance, col buco.
Ore 17,30. “Fumo il cane” dall’ufficio talmente in fretta che alzo le beole del pavimento flottante, faccio delle sfiammate che sembro un College con la Proma. Scappatina all’Iper a prendere una cassa d’acqua e sei bozze di Freschello (surrogato di vino che contiene gli stessi solfiti presenti in una solfatara). Piada e birretta con gli amici alla ex Cocomeraia di via Mulinetto. Quanti ricordi in quel posto, a pochi passi da casa mia, dalla fresca cocomera (in ferrarese è femminile) degli anni Settanta con la famiglia, a quella più arrogante e testosteronica degli anni Ottanta, condita spesso con una Lucky Strike a fare da contrasto alla dolcezza del frutto. In discesa, giù dal ponte dell’Impero a raccontarci di mirabolanti avventure e gli amici (infami) a descrivermi la trasferta di Frosinone (io non ci sono mai).
Entriamo a casa, nel posto più accogliente del mondo, nell’antro dei nostri sogni di bambini cresciuti a pane e S.P.A.L. L’ultima volta che abbiamo fatto dei punti in casa con la Lazio indossavamo la maglia Blu sponsorizzata Sauber: i supporter capitolini stavano in curva con noi e Malaman spaccò la rete con una bordata da trenta metri.
Era il 1981 e io avevo quasi dodici anni. Pochi minuti prima del fischio d’inizio Marce dalla balaustra ci ricorda chi siamo, cosa siamo diventati e cosa stiamo facendo.
E la curva lo ascolta. I primi dieci minuti ci accorgiamo della differenza di punti tra noi e loro. Poi, a poco a poco, come in una bella favola, i punti spariscono: siamo alla pari, biancoazzurri noi, biancocelesti loro, da destra e da sinistra due frecce si scagliano contro l’aquila, che comincia a intimorirsi. Sergione lotta come un leone, l’anagrafe non conta quando la classe ce l’hai addosso. La curva cresce, dalla balaustra gli istrioni gridano nei megafoni, ci guardiamo negli occhi, ci capiamo, i decibel salgono.
Secondo tempo, soffriamo un po’. Non tanto. Poi, un punto contro la Lazio ci può pure andare bene, ma vincono tutte le altre, fra un po’ la quota salvezza raggiungerà la quota per l’Europa League. Rigore! Anzi no, ammonizione, ma che cazzo ha visto… no, non è possibile. L’arbitro è fermo, ascolta, attende. Noi non respiriamo più. Il direttore di gara, va a vedere aldaVAR, inequivocabile segno del monitor, che ci ha sempre fatto piangere. Ha deciso, indica…. Il dischetto del rigore. Boato, ma contenuto. Petagnone l’appoggia sul dischetto. Quella palla peserà almeno quanto una palla medica. Ci fossi io al suo posto avrei bisogno del pannolone, quello a cinque gocce. Forte in mezzo (cit.), come da manuale.
Esplodiamo, ce la meritiamo, quarant’anni di sofferenza valgono questi momenti, sentire tutto lo stadio cantare, gioire, applaudire, ti rimette per novanta e passa minuti in pace col mondo. Cento volte per il capitano. Noi lo sappiamo che il calcio non c’entra, ma non lo diciamo a tutti. Grazie papà, grazie nonno Vanes, per avermi trasmesso la più bella malattia del mondo, quella che non va più via. Forza vecchio cuore biancazzurro.