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Se, se, se.
Mah, mah, mah,
Mah, un cazzo!

Abbiamo perso al 94° minuto dopo avere dominato per cento minuti dalla curva ospiti e pure da una striscia della San Luca, promiscui assieme ai Balanzoni (ottima idea e per nulla in controtendenza con le simpatiche regole dei vari decreti sicurezza, n.d.r). Non mi raccontate che è una sconfitta come le altre. Lo so, c’ero anch’io a Cento. Non c’ero a Rovigo, ma i milioni di sconfitte contro squadre della Nonsochecazia, le ho viste pure io, nei miei lunghi quaranta anni di militanza.

Attenzione: mica sto criticando nessuno. Il mister, la squadra e la monumentale curva Ovest in formato trasferta, hanno dato il massimo. La curva anche di più. Ho consumato talmente tanti sali minerali che oggi, a pranzo mi sono fatto due tagliolini con scaglie di Dolomite dentro. Così come, da sempre, vi scrivo che la SPAL non è una squadra di calcio, andare alla SPAL non significa vedere la partita di pallone, il derby non è una partita. E’ molto di più, è la sfida tra capitale e lavoro, tra il dottor Balanzone (maschera inventata) e Gianni lo Sceriffo (personaggio vero), grande città contro provincia, Golia contro Davide, Dall’Ara contro Mazza. Ecco, questo è per me SPAL contro Bologna.

“Sconfitta meritata”; “Tante occasioni contro poche occasioni”; “Senza il fantasmagorico Berisha il gol lo beccavamo prima”. Sono affermazioni che non mi appartengono: io non sono sportivo, non sono un esteta del bel calcio, non effettuo attività onanistiche vedendo gli schemi e il piazzamento dei giocatori. Non me ne frega una beata ceppa di chi ha giocato meglio: io tifo la SPAL e basta, Don Chisciotte è il mio ideale, i mulini a vento sono tutte le altre compagini d’Italia che non abbiano lo stadio in corso Piave. Non chiedetemi professionismo e dettagli da giornalista, io non lo sono, sono solo pazzamente innamorato di quei colori, che mi causano la pelle d’oca dall’età di otto anni.

Una sconfitta a Bologna peggiora il mio reflusso gastroesofageo, trasformandomi in mangiafuoco, questo è. Io ho visto una squadra lottare fino alla fine, con impegno, voglia e grinta. Rispetto all’anno scorso ci mancano però, i due più forti laterali del campionato ed il migliore giovane centrale della serie A, mica pizza e fichi. Chi pensa che serpeggi pessimismo o vittimismo tra di noi, non ha capito. Non ci conosce ancora bene, forse in tutti questi anni ci ha confuso con altri. I social, i forum, i nuovi bar virtuali, non sono il nostro ambiente. Noi siamo nati in bar fumosi, in ambienti dove per parlare spesso occorreva alzare la voce, guardandosi negli occhi, senza risplendere all’ombra di un monitor. Noi siamo nativi analogici, per telefonare usavano i gettoni, per giocare utilizzavamo duecento lire, per entrare al Mazza avevamo un cartoncino colorato, bucato da una maschera. Non c’è pessimismo nel cuore di chi lotta.

La lunga giornata di venerdì è iniziata presto per me. Alle sette di mattina già indossavo la maglia da trasferta e poco dopo già mi accingevo all’ingresso della grande fabbrica dalla portineria Ovest. In macchina due sciarpe, il mio due aste ed un paio di pantaloni corti. Quasi mezz’ora di straordinario e prima delle 17 già faccio trillare il tornello in direzione Ipercoop. Vado verso il pullman numero 7 e nel tragitto saluto mille persone. Siamo sempre qua, siamo sempre noi, la trasferta (anche per me che ne faccio meno di poche), ha il sapore dell’amicizia e della condivisione, dell’appartenenza e del tempo che passa, anche per noi ragazzacci nati alla fine degli anni Sessanta. Ultimi posti come alle superiori, anche se l’ultimissima fila vede i bimbi protagonisti. Coda chilometrica, a causa di un brutto indicente. Facciamo, addirittura, la lotteria: terzo premio un ombrello logato (con logo), un paio di pantaloncini per secondo e la maglia di Petagnone come primo premio. Pago l’eurino e scelgo il numero 87, il mio preferito dalla seconda elementare. Scaglio il terzo premio di molto, ancora di più scaglio il secondo e… maremma impestata, esce l’86 e si aggiudica la maglia. Forse un segno del destino, ma se il destino si è messo contro di noi, peggio per lui (cit.)

Tra una cazzata, un panino ed una birra calda arriviamo all’ingresso ospiti, tutto uguale, tutto come sempre, gioia di esserci, frenesia di partecipare. Puntatina al bar e poi su, verso il loggione. Lo spicchio ospiti si riempie, alcune centinaia dei nostri oltre il muro in territorio nemico, genialata nella gestione dei biglietti. Entra gente fino a cinque dall’inizio, siamo tanti, siamo belli. Tutto lo stadio applaude Mihajlovic, noi compresi, sulla vita non si scherza e l’acceso campanilismo per un attimo si spegne. Ma è solo un attimo, poi sugli spalti cominciamo a mulinare bandiere, due aste e sciarpe, è un turbinio, sudiamo come ai tempi di Saronno. Sembro una fontana, mi evaporano i denti, le dodici ore lontane da una doccia, risvegliano una scardola morta sotto le mie ascelle, ma alziamo le braccia e battiamo le mani. Lottiamo, ma siamo in difficoltà, il portierone nostro, se questo è, come dice il buon E.T. rischia di essere il migliore che abbia mai vestito i nostri colori: un gatto, un ragno, in somma tanta roba. La partita si srotola fino alla fine, gran parata del loro portiere e capitolazione nostra al 94°,. Scendono gli dei dell’Olimpo a chiedermi se ce l’ho con loro e se è solo sconforto. Non smettiamo di cantare, mai. Nessun passo indietro, nemmeno per prendere la rincorsa (cit. Ernesto Guevara de la Serna). Ultimo, ma non ultimo, un immenso in bocca al lupo alla famiglia coinvolta nel terribile incidente in autostrada e a Sinisa Mihajlovic, impegnati nella partita più importante.



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