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Lo so, non è il momento di parlare di calcio. Il mondo sta affrontando la più brutta crisi del XXI° secolo. Il sistema del produci-consuma-crepa va in frantumi assieme a migliaia di vite umane a causa di un minuscolo esserino di merda. Ma proprio in questo momento, in cui occorrerebbero coesione, solidarietà, unità e coraggio, un manipolo di milionari coi soldi degli altri sta pianificando la ripresa delle ostilità: il campionato di serie A. Uefa, Figc, Lega, i presunti detentori della passione, avvoltoi che volano in tondo, cercano il modo per recuperare i soldi, a discapito di tutto e tutti. Nei momenti di tragedia si può dare il meglio di ciò che si ha o il peggio. Ricordo ai tanti virologi/economisti/padri della patria da social network che in questo preciso istante i dipendenti pubblici (degli ospedali) ora sono i nostri angeli, la feccia della società (come molti definivano gli Ultras) stanno costruendo ospedali, aiutando fisicamente i più deboli, sostenendo raccolte fondi per rimanere a galla. Gli amici dei terroristi (come alcuni politici e non definivano le ONG) stanno lavorando in corsia ed insegnando come proteggersi ai medici ed agli infermieri in prima linea.

E tutto ciò che c’entra col calcio? C’entra, perché i padroni della sfera vorrebbero riaprire le serrande (ma solo in diretta tv) nonostante tutto questo. Un sistema, non solo il pallone, basato sul nulla, sul pregiudizio, una diretta Facebook per sporcare la dignità di tanti e per elevarsi a paladini di una casa di carta. Quel gioco, per cui io persi la testa inseguendo un Super Tele in un cortile chiuso da quattro mura, indossando una maglietta della salute con sopra scritto col pennarello il numero 7, è diventato (da decenni) questo pattume. Come si può immaginare di riprendere a giocare dopo aver detto addio (a distanza, senza neanche un abbraccio) a decine di migliaia di persone? Come è possibile anche solo pensarlo? Esulteremo per un gol della nostra squadra dentro una tempesta di lacrime e dolore?
Dice, falliranno delle società. Siamo onesti: a chi importano davvero le realtà di seconda, terza o quarta serie. Ai più interessa la serie A, quella coi giocatoroni, quella dei fenomeni che guadagnano quanto una multinazionale. Ai più interessa la moneta, anche se sporca di sangue. La squadra per cui io ho perso la testa dagli anni Settanta viene indicata tra quelle contrarie alla ripresa del campionato: ne sono orgoglioso e fiero. Noi siamo il calcio e il calcio è della gente. Date disdetta alla pay tv, venite con noi, sui gradoni di uno stadio e abbracciatevi, quando si potrà.

Questo è il mio personale pensiero: sono contro la continuazione di un campionato già morto e non mi importa quale sarà la categoria in cui militeremo il prossimo anno. Non è un problema, non lo è mai stato, né ora e né mai. Ciò che mi importa è tornare ad essere spalla a spalla con la mia gente, stretti in una splendida umanità che non può essere vissuta ad un metro di distanza, o meno. Sarà lunga, passerà ancora tanto, ma finirà. Spero questa immane tragedia ci insegni qualcosa, soprattutto riguardo ai pregiudizi, ritrovando la voglia di stare insieme, che noi esseri da curva conosciamo bene. Chi vuol giocare a porte chiuse, facendo tamponi ai giocatori continuamente, ha già distrutto il nostro mondo e ora vuole dargli il colpo di grazia. Soggetti che calpestano la dignità del dolore, alla ricerca spasmodica del target, del guadagno, dello sponsor. Io non ci sto. Io sto con la mia curva, con la mia società, con gli ultras che conoscono il significato di passione e solidarietà. Un calcio in culo ai padroni del vapore.



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