foto Filippo Rubin
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It’s the End of the World as We Know It” (cit.) e io non mi sento tanto bene. Dice: ma tu non sei quello che scrive solo quando si vince? Vero, ma se va così io non scrivo più. Tentenno, cincischio, mi si incastrano i pensieri assieme ai tasti, cerco parole e concetti nel buio del mio scatolato cranico, ma non mi pullulano idee e frasi ad effetto. E allora che cazzo scrivo? Non lo so, ma continuo.

Era un secolo che non andavo molto vicino alla colonna di seggiolini numero 87, i presupposti c’erano tutti. Già da un paio di giorni avevo il biglietto cartaceo, acquistato online, dopo un master in informatica seguito su una piattaforma digitale direttamente dalla Silicon Valley. Quel friccicore che mi accompagna da oltre quarant’anni, da quel tagliandino colorato bucato dalle maschere all’ingresso del curvone a sti fogli svolazzanti che nulla hanno di romantico. Il trillo del tornello in uscita ha un rumore diverso rispetto all’entrata, la calca nel parcheggio ovest del fabbricone denota la sete d’aria degli alienati. Ma c’è solo una Ovest nel mio cuore e non è certo questa menta di portineria. Un toast integrale, una birretta, una minzione e sono pronto, bi-sciarpato dalla mattina, mi reco al mio solito parcheggio, che è stranamente abbastanza stipato dai clienti del super mercato e delle attività commerciali limitrofe. Cosa avrà mai quel luogo da essere diventato un culto, da attrarti fin dall’infanzia, da essere un sogno ricorrente? Nulla, solo storia, passione, appartenenza, colore, calore e amicizia, niente di che.

Sono in vista del tornello, indosso la mascherina FFP2 e il cappellino della SPAL (elegante) e una gentile maschera mi dice di toglierlo. Giusto, per entrare in un tempio occorre portare rispetto ai fedeli. Riesco a far strisciare i fogli sotto al lettore ottico, con in mano il telefono e il cappello, un addetto controlla se ho bisogno, mi sembra di essere un degente della Bethlem, sono dentro. Ac fàdiga. Dopo una sudata così devo reidratare. In coda trovo due amici: sì, sì, ci vediamo lassù dove osano i suini. Metto un paio d’euro nella cassettina delle offerte e sono a casa. Siamo in pochi, ma siamo quelli che bastano. I giovani in braghini corti, quelli che sgambettano allegri sul prato verde della nostra storia, dovrebbero dare la mano uno ad uno a tutti e tremila i tifosi che assistono alla partita, ad un orario e in una giornata che nulla c’entra col calcio. Ma poi il calcio esiste davvero? Per me no, è solo un pretesto per vivere e condividere una passionaccia infame, che ci ha tolto il cuore da epoca immemore.

Il mio ringraziamento va a tutti i presenti, in ogni settore. Di fronte non abbiamo una squadrone patinato, ma una compagine di serie B. Fa freddo, le luci della ribalta sono lontane e si allontanano sempre più. Che dire sulla partita? Forse dobbiamo scontare gli anni belli con un altro milione di anni di liquidezza, forse rispunterà il Renate o magari il Renazzo (per citare un amico), i fantasmi dei mille anni precedenti cominciano ad emergere dai fuochi fatui del cimitero indiano sopra il quale, un secolo fa, fu eretto il Mazza. Il nostro fortino oramai divenuto terra di conquista da parte di legioni di ogni latitudine. Cosa c’è che non va? Dove e come si deve intervenire? Io faccio fatica a fare una o con un bicchiere, figuriamoci se ho indicazioni o risposte. Vorrei solo citare alcuni giocatori, sconosciuti ai più giovani, ma che furono paladini di noi diversamente adolescenti: Paganelli, Totò Improta, Fabietto Lucidi, Dore Bacci e il ben più famoso Big Max Mezzini. E perché lo furono? Perché per loro la partita era (metaforicamente) una questione di vita o di morte, era grinta, coraggio, sacrificio, l’avversario andava intimorito, andava sopraffatto, il pallone era il plus valore strappato dalle mani del padrone. Questo era e ora non è.

Mi ricordo il Cittadella di Venturato tutte le volte che veniva di qua dal Po, una squadra fastidiosa come le cagatreppole incastrate nelle infradito quando si andava in pineta con la morosa. Perché questo spirito non riesce ad emergere? E comunque la curva ha intonato: “Vicenza stiamo arrivando“. Lo spirito, la tigna, la tenacia di quei ragazzi su quei gradoni è quello il punto di partenza e di arrivo. Non importa vincere, importa sudare l’anima. E poi, chiudo con un verso di una canzone così come ho iniziato questa pippa di articolo:

The time to hesitate is through
No time to wallow in the mire
Try now we can only lose
Dai SPAL, cavalca il serpente.

Forza vecchio cuore biancazzurro.



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