È molto, molto difficile scrivere di tematiche leggere dopo una giornata come quella di domenica. Non esistono le parole per alcuna descrizione, nessun conforto, nessun senso, nessun fottutamente bastardo “perché“? Forse non è neppure giusto scrivere, occorre il silenzio. Ma quel sorriso da bambino, quegli occhi grandi e pieni di sogni hanno fatto lacrimare il cielo sopra il Mazza, i tuoi amici, la tua gente, i padri e le madri, i fratelli e le sorelle di una comunità che spesso è impossibile da descrivere, ti hanno reso omaggio. E il capitano con i fiori e con la grinta ti ha ricordato prima e durante la partita. Ciao ragazzo, mi piacerebbe non essere ateo e credere a un dopo, immaginarmi un secondo anello della Ovest gremito di tutti i nostri cari, che ridendo e fumando commentano le gesta della nostra sconquassata SPAL, in un tripudio di elle ed esse rimbombanti per l’eternità.

foto Filippo Rubin

La qualità in campo, il modulo, i cambi, la campagna acquisti, i giocatori, il mister, la dirigenza, avulsi in un male oscuro di una proprietà quasi invisibile. Un marasma di pensieri che vortica in quello che una volta era un catino legnoso per tutti, pure per gli squadroni, e ora è un pascolo dove chiunque indossi un paio di pantaloncini corti può scorrazzare e prenderci a pallonate. Nel gioco dell’assurdo alla Ionesco credo che gli anni d’oro della grande S.P.A.L. ci abbiano fatto male. Non siamo tarati per vincere, dominare e mangiarci i campionati. Non sono nel nostro D.N.A. Una qualche merdosa elica deve essere sberciata, o forse gira al contrario o forse semplicemente siamo spallini. Non provo nessuna rabbia, solo rassegnazione.

Mille scuse a quasi tutti, fuori che al padrone della legna, un branco di amici che alla domenica mattina con mille casacche diverse si ritrova ai Tre Campi e insegue un Mitre scucito. Uno e uno solo emergeva dal pantano e dal fango del campo, un vecchio lupo, che solo all’anagrafe poteva dichiarare la sua età. In un ruolo non suo, in un modulo a lui non adatto, dopo mille cross in area alti quattro metri, con un gioco che lo costringe a fare la prima, la seconda e la terza punta, il lupo continua ad azzannare amici e nemici intorno a lui. Non sono i due gol a farci capire che tipo di giocatore sia Ante7, no, quelli sono il meno, quello che ci fa capire di chi stiamo parlando è il fallo che costringe un giocatore della Lucchese ad uscire a cinque dalla fine, nei pressi della bandierina del corner. Quello ti fa capire chi è il capitano, che da solo ricorda a tutti di avere vinto la serie B con quella casacca, assieme a un manipolo di eroi, di avere fatto sedici gol in quel campionato che non esiste, di avere mostrato i tacchetti a multinazionali in calzoncini corti. Per poco non la rimette in piedi da solo, ma noi abbiamo acquistato uno stock di difensori che mi fanno rivalutare la mia men che modesta carriera. Ragazzoni alti alti, che si inzuccano tra loro sui colpi di testa, con un senso della posizione come Stevie Wonder nelle valli del Mezzano. E per citare un simpatico cantautore bolognese: “a son sfighè, ma d’una sfiga che se am casca l’usel par tera alm rimbalza in te c…“.

Dopo i tre papaveri rimediati in casa usciamo dallo stadio sotto una pioggia monsonica, che i miei amici di rientro dalla Thailandia mai hanno visto. Io e Mela abbia surfato in via IV novembre, con delle onde degne di un mercoledì da leoni. Alle pendici del ponte dell’Impero mi pare di avere scorto un vecchio con la barba bianca vagamente somigliante a Noé che radunava animali dalle varie forme e dimensioni. Ero talmente bagnato che volevo farmi un tuffo in Darsena per asciugarmi. Un’apocalisse ferrarese degna conclusione di una domenica di merda.

Dolce sorriso,
sguardo di luce,
il sorriso bambino
in un mondo che tace.
La sciarpa ti avvolga
riscaldandoti il cuore
nell’abbraccio d’amore,
in un posto migliore.

Ciao ragazzo.