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Lupo ululà, castello ululì…
Il mio nome è Aigor!
Ecco, basterebbe questo per ringalluzzirci dopo la serata di ieri.

Ebbene, la lunga estate calda è finita. Si fa per dire, perché ieri sera là sotto c’erano quaranta gradi. La fine di agosto mi lascia sempre quello strano di retrogusto di tristezza, quell’odore di inizio della scuola che avvertivo da ragazzo, ma settembre era ad un passo, si muovevano i primi lucci della Diamantina, e soprattutto iniziava la mia terapia salva-vita, l’Aspirinetta che protegge il cuore dai traumi del logorio della vita moderna. Così è stato anche ieri.

Durante la canicola io ho bisogno di staccare la spina: non solo dal lavoro, anche dalla SPAL. Il campionato mi logora. Vivo, partecipo, mangio ansia e come un vero atleta ho bisogno di immergere i polpacci in un torrente. Anche e non solo metaforicamente. La querelle delle stadio, seria e grave, mi ha sempre visto dalla parte della società, positivo nella convinzione che i fatti si sarebbero risolti per il meglio. Peccato che lo stop di un mese abbia inficiato il raggiungimento del traguardo dei diecimila abbonamenti, alla nostra portata.  La campagna acquisti, non è affar mio: io tifo chi indossa la mia maglia, il direttore conosce il suo mestiere e questo mi basta. Abbiamo perso tanti degli eroi che fecero l’impresa, riconoscenza infinita. Il Libero Liberati non sarà mai cancellabile, rimarrà tatuato nel cuore di tutti gli spallini, per l’eternità. Ma si va avanti.

Le ragazze all’offertorio, gentili e simpatiche come sempre, mi accolgono con un sorriso, ci siamo salutati tre mesi fa e ora siamo di nuovo pronti per una nuova e pazzesca follia. Oltre la scala mi appare il più bel prato del mondo, qualche secondo lo dedico a riprendere fiato ed a guardarmi intorno: l’emozione non ha età, non cambia, non invecchia con me, dall’alto del mio mezzo secolo da compiere fra una settimana. Credo che un luccichio ai lati degli occhi, in stile manga anni Settanta, mi sia apparso anche questa volta. Mille abbracci per il ritorno a casa, solita caciara, soliti amici, più qualche new entry che vuole provare l’ebrezza di partecipare, alla disputa, rivoltandosi nell’aibi. Poca enfasi, la curva Ovest non ne ha bisogno, siamo partiti carichi e lucidi come sempre, si canta, si suda, si beve. Siamo i soliti, una garanzia, nessuna novità.

Poi la squadra: tanta voglia, tanta grinta, pressing alto, le due fasce prive dei due tenori dell’anno scorso. Venduto Manuelito, infortunato Momo. Sono state il punto di forza della squadra nel primo tempo. DiFra è un furetto che sgusciava tra le gambe dei legnosi difensori della Dea, Igor da paura, centrale tatuato brasiliano, che entra in area con un doppio passo alla Pezzato e la spinta di Furia Idini, è già diventato un idolo della curva. La forza e la grinta, impastata al piede carioca, infettato dalla Ginga, ci innamoriamo in un nano secondo. Il Missile comanda e dirige. Strapazziamo la medaglia di bronzo dell’anno scorso. Facciamo due bei gol, in velocità, l’Atalanta ci teme, ha paura, l’odore delle endorfine della preda ci fa schiumare la bocca, potremmo farne un altro, ma lo spizzo di Valoti salva il portiere ospite. Poi becchiamo un gol prima della chiusura del tempo, peccato.

Secondo tempo: entra Muriel e si spegne la luce per noi, due gol da fuori a scombinare l’areale di frega del Fratino nell’angolino basso della nostra porta. Vabbé, la prima è andata, qualche seggiolino vuoto in gradinata ed in tribuna, molto caldo ed una bella SPAL. Rimango convinto che la seria A non esista: ci siamo solo noi contro le altre squadre. Un mondo in via di estinzione, in cui si smontano le panchine per risolvere i problemi di una città, dove si gioca a qualunque ora e in qualunque stagione, dove il virtuale diventa verità. Esistiamo noi, che usciamo senza voce, che alziamo braccia e pugni al cielo, e che viviamo per una maglia strana e dall’eleganza antica. Sono tornato, siamo tornati. Forza vecchio cuore biancazzurro.



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